GOOD MORNING ASIA
“Per un altro Occidente”
31 marzo – 9 aprile
(2 di 2)
SOMMARIO
- BREVE INTRODUZIONE. Ritorniamo dopo due anni tragici di guerre e di massacri…
- ‘LA GRANDE TRASFORMAZIONE’. Yellen, novella Suslov, a Pechino
- ‘ASIA, DEMOCRAZIE EMERGENTI’
1. 10 Aprile, coreani al voto…
2. Prabowo a Pechino… - ‘ITALIA, GEOPOLITICA DOMESTICA’. La ‘Ghigliottina’ (di Draghi)…
‘ASIA, DEMOCRAZIE EMERGENTI’
1. 10 Aprile, coreani al voto…
Ovviamente stiamo parlando dei cittadini sud-coreani. Al Nord non concepiscono neppure l’idea di un libero confronto politico, sociale, elettorale. Il 10 aprile prossimo i cittadini della Repubblica di Corea, o Corea del Sud, andranno alle urne per rinnovare l’Assemblea nazionale, il locale Parlamento. Sono consultazioni importanti da non sottovalutare.
Il 2024 è un lungo anno elettorale per il mondo. A parte il Parlamento europeo e il Novembre americano, si recheranno o si sono già recati alle urne i cittadini delle più grandi democrazie del mondo, Indonesia, India, Sudafrica, Messico (guarda caso, queste sono tutte grandi nazioni molto critiche verso gli approcci politici ed economici americani e verso la guerra economica globale dell’’Occidente’..…), nonché i cittadini di due vivacissime democrazie est-asiatiche, Taiwan e appunto Corea del Sud, entrambe strette alleate di Washington; entrambe con numerose e positive contraddizioni al riguardo.
È difficile poter sottovalutare l’importanza politica e geopolitica del voto sudcoreano. Che è dominato, come accade da decenni a Seul, dallo scontro fra conservatori e liberali coerentemente progressisti.
Iniziamo dall’ economia. La Corea del Sud ha iniziato negli anni cinquanta del ventesimo secolo, il suo percorso di crescita capitalistica dietro l’Italia. Ora è decisamente, ma decisamente più avanti. Chi di noi non conosce nomi come Samsung o Hyundai? Chi di noi non ha a casa o sotto casa prodotti, elettrodomestici, computer, cellulari o automobili con questi marchi? Questi grandi conglomerati capitalistici, i chaebol, sono diventati grandi protagonisti del capitalismo globale. L’industria dei microchip sudcoreana, poi, costituisce una filiera globale di eccezionale importanza.
La Cina è il più importante partner economico della Corea del Sud. Ma gli Stati Uniti mantengono, dalla guerra di Corea, un importante contingente militare sul territorio sudcoreano. La guerra di Corea, formalmente, non è mai terminata con un trattato di pace; e’ stata solo interrotta da un armistizio tuttora in vigore. Gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno esercitato pressioni fortissime affinché Seul indebolisse i suoi rapporti economici nei settori tecnologici più avanzati con Pechino. A Seul hanno cercato di resistere a questo approccio molto assertivo di Washington, poiché in Corea del Sud conoscono perfettamente i loro interessi economici e politici. Ciò anche se i due campi politici hanno collocazioni parzialmente differenti. I conservatori, eredi dei regimi dittatoriali militari proUsa delle prime fasi politiche della Repubblica di Corea, sono filo-americani. I liberali coerentemente progressisti, eredi dei forti movimenti di contestazione anti-dittatoriali, sono meno filo-americani e tendenzialmente nazionalisti.
Ovviamente la divisione della penisola in un Nord ‘governato’ dalla dinastia nazionalista-comunista e autarchica dei Kim e in un Sud vivacemente capitalista e democratico, e’ l’ambito decisivo di tutta la politica internazionale di Seul. I conservatori sono duri nei confronti di Pyongyang e tendenti al confronto strategico, i liberali coerentemente democratici e progressisti invece puntano al dialogo con il Nord. Per cambiare le cose con una logica di medio periodo.
E poi c’è il complicato rapporto con l’altro grande paese alleato degli Stati Uniti nella regione, il Giappone. La Corea ha patito una decennale e durissima dominazione coloniale nipponica. La gravissima storia delle ‘donne di conforto’,le ragazze coreane usate come schiave sessuali dalle forze e dalle autorità di occupazione giapponese, tuttora permea le relazioni Tokyo-Seul. I conservatori, tendenzialmente, sono favorevoli a rapporti più stretti con Tokyo, i liberali coerentemente progressisti sono più nazionalisti.
Come abbiamo, succintamente, cercato di raccontare, i due campi politici più rilevanti, conservatori e liberali coerentemente progressisti e democratici, hanno visioni parzialmente differenti sulle issue internazionali della Corea del Sud. In più abbiamo la centralità del capitale sudcoreano in segmenti chiave di filiere globali altrettanto fondamentali.
Tutto ciò rende queste consultazioni molto interessanti: sono elezioni che riguardano il Parlamento e la Repubblica di Corea e’ una democrazia presidenziale particolare, (c’è anche la figura del primo ministro…) ma sarà importante capire gli orientamenti dei cittadini sudcoreani, come è stato importante a gennaio comprendere gli orientamenti dei cittadini taiwanesi. I sondaggi danno un serrato testa a testa fra ‘Partito democratico di Corea’, di tendenza liberale coerentemente progressista, e ‘Partito del potere del popolo’, di orientamento conservatore. Vedremo…
‘ASIA, DEMOCRAZIE EMERGENTI’
2. Prabowo a Pechino…
Prabowo Subianto ha stracciato il suo competitore più politicamente parlando più lontano, nelle recentissime elezioni presidenziali del paese musulmano più popoloso del pianeta, nonché economia e nazione chiave dell’Asia sud-orientale. Stiamo parlando dell’Indonesia, lo stato-arcipelago con oltre 200 milioni di abitanti, dispersi in migliaia di isole, il cui centro è la grande isola di Giava. Prabowo ha ottenuto al primo turno, diventando immediatamente il vincitore riconosciuto, il 58,59 per cento dei voti, contro il 24,95 per cento (più che doppiato, dunque) presi da Anies Baswedan. Anies era stato governatore della capitale, Giakarta. Particolare importante: Anies è un ‘Fulbright Scholar’ e ha studiato in importanti università americane. Aveva l’appoggio del Dipartimento di stato Usa. Nonostante ciò (o forse, a causa di ciò) è stato duramente sconfitto.
Prabowo invece ha avuto il sostegno del presidente uscente, il popolarissimo Joko Widodo. Il cui figlio, Gibran Rakabuming Raka, è diventato vicepresidente di Prabowo. Prabowo è esponente importante del mondo militare, ha comandato i reparti scelti dell’esercito, il Kostrad, (la Riserva strategica). È stato spesso al centro di molte polemiche sul fronte dei diritti umani.
Come si ricorderà, l’Indonesia nel dopoguerra ha assunto un ruolo chiave del mondo ‘non allineato’, tra l’altro ospitando a Bandung la conferenza afroasiatica. Protagonisti della conferenza furono Sukarno, padrone di casa come Presidente dell’Indonesia e carismatico leader nazionalista, Zhou Enlai, primo ministro della Repubblica Popolare Cinese, e J. Nerhu, leader del Congresso, primo ministro indiano ed erede politico del Mahatma.
Gli Stati Uniti non vedevano molto bene il Movimento dei Non Allineati (che si potrebbe definire il precursore dei BRICS di oggi). Sia come sia, nel 1965, dopo un tentativo di colpo di stato di ufficiali di sinistra, sulla cui natura non si è mai fatta piena luce, iniziò il grande massacro indonesiano. Che può essere definito il ‘genocidio del movimento comunista’ di quel paese. Il Partito comunista indonesiano era allora il terzo partito comunista per grandezza e importanza di tutto il mondo, assieme a quello sovietico e a quello cinese. Era vicino al Presidente Sukarno. In risposta al cosiddetto tentativo di colpo di stato degli ufficiali di sinistra, Suharto, allora comandante del Kostrad, sostenne un colpo di stato dei militari di destra: così iniziò il grande massacro, da 500mila a tre milioni furono i morti. Il Partito comunista indonesiano fu totalmente annientato. È il ‘metodo Giacarta’, come è definito in un libro molto interessante. Sukarno fu poi obbligato alle dimissioni e fu sostituito da Suharto. L’Indonesia, il paese chiave del sud est asiatico, fu ‘messo in sicurezza’ nella logica della guerra fredda, dal punto di vista americano; la stessa guerra del Vietnam divenne a quel punto un evento molto tragico, ma piuttosto ‘marginale’ dal punto di vista geopolitico.
Da allora l’Indonesia ha fatto molti passi avanti, in particolare dopo la caduta del regime autoritario di Suharto. Ha fatto molti passi aventi, sia nella crescita economica, è una delle Tigri dell’Asia orientale, sia dal punto di vista dello sviluppo e consolidamento democratico: oggi è una democrazia pluralista, pur con molte contraddizioni e problemi irrisolti. Prabowo deve affrontare grandi sfide.
La cosa si fa interessante a questo punto: infatti, che ha fatto il presidente eletto, neppure insediato al potere, nel nome della ‘continuità’ con il presidente uscente in politica internazionale, (il ‘bilanciamento intelligente’ e vicinanza al mondo BRICS, pur senza, per ora, aderirvi)? É andato, nella sua prima visita estera, in quel di Pechino. Ed è stato ricevuto sul tappeto rosso dal Presidente cinese Xi Jinping.
Prendiamo la stampa ufficiale cinese, ‘Xi si è congratulato con Prabowo per aver vinto le elezioni e ha chiesto di trasmettere saluti sinceri e auguri al presidente Joko Widodo’, scrive il Global Times (Il Global Times è un giornale ufficiale cinese, vicino a posizioni nazionaliste). ‘Prabowo – continua -ha trasmesso i sinceri saluti del Presidente Joao Widodo a Xi e ha detto che è lieto di aver compiuto la sua prima visita estera in Cina’. Ha affermato – scrive sempre il giornale cinese – che continuerà la politica amichevole dell’Indonesia verso la Cina. E poi, prevedibilmente si è parlato dei grandi progetti infrastrutturali che condividono Cina e Indonesia.
In realtà Prabowo è ‘solo’ uno degli esponenti di rango dei governi del sud est asiatico che si stanno recando nella capitale cinese, a dimostrazione dei rapporti stretti fra Pechino e ASEAN nell’ambito dell’approccio di ‘bilanciamento’ dell’Associazione delle nazioni del sud est asiatico, che ricordiamo sono tutte entrate nell’RCEP, l’Accordo di cooperazione economica regionale pan-asiatico che ricomprende Cina e Giappone ma, ovviamente, non gli Stati Uniti.
‘ITALIA, GEOPOLITICA DOMESTICA’. La ‘Ghigliottina’ (di Draghi)…
L’Italia è una zattera. Una zattera nella Grande tempesta globale. Quella che Papa Bergoglio, con efficacia, ha definito la terza guerra mondiale a pezzi. Ma l’Italia è anche il solo luogo d’Europa che, per due volte (ce lo ha ricordato un grande economista di sinistra italiano, Giorgio Ruffolo), ha prodotto la superpotenza mondiale. Per essere precisi, è il luogo che ha dato vita per due volte nella storia alla superpotenza del mondo ‘europeo-mediterraneo’.È successo prima con l’Impero romano. Dopo con le Repubbliche marinare. La Serenissima repubblica di Venezia e la Superba di Genova.
L’Italia è anche il ‘paese avanzato’ più in fortissima sofferenza per una pluridecennale stagnazione salariale e sociale. Una condizione molto peculiare: in tutti gli anni della globalizzazione ad egemonia americana, salari e movimenti operai si sono molto precarizzati e profondamente indeboliti in quasi tutti i paesi ex avanzati, cioè in tutto l’Occidente. Solamente in Italia, nel mondo OCSE, però, salari e redditi procapite sono stati stagnanti o addirittura declinanti per almeno due decenni.
Pochissimi dati: in Italia solo il 58 per cento della popolazione fra 15 e 64 anni ha un lavoro o un impiego retribuito. Siamo sotto la media OCSE di circa 8 punti. La disoccupazione si aggira attorno al 5 per cento. Di fronte ad una media dei paesi ‘avanzati’ ovvero OCSE dell’1,3 per cento circa. Il reddito familiare netto, tolte di mezzo le imposte, è circa 3000 euro al di sotto della solita media Ocse. Ciò senza contare la debolezza degli ammortizzatori sociali del nostro paese. E senza contare che dobbiamo tenere conto che, nell’ultimo trentennio, precisamente dal 1990 al 2020, l’Italia è l’unico paese europeo (e dell’intera Eurozona) dove il reddito da lavoro, calcolato a dollari costanti è declinato: è diminuito del 2,9 per cento. Ciò di fronte alla dinamica positiva dei salari, per esempio, della Grecia (più 30,5 per cento) e della Spagna (più 6,2 per cento).
L’Italia è dunque una zattera che fa acqua. Fa acqua la sua economia, il suo particolare sistema capitalistico. E fa acqua il suo sistema politico complessivo incapace di intervenire nell’economia per rimuovere i fattori alla base del declino salariale.
L’Italia da sempre ha avuto ed ha tuttora una relazione molto particolare con i fattori, le coordinate della sua ‘geopolitica’. Questa relazione molto particolare, alcune volte, ha favorito la sua modernizzazione, civile e capitalistica; altre volte ha svolto una funzione di vera retroguardia, ovvero una funzione reazionaria, altre volte ancora aveva una potenziale funzione di ampia modernizzazione ma essa è state ampiamente male elaborata e male interpretata dal sistema politico italiano.
Nella Prima repubblica, vi era un doppio vincolo di carattere internazionale, quello atlantico e quello europeo. Il vincolo atlantico di allora era sovraordinato rispetto all’Europa comunitaria. La Comunità economica europea infatti era nata come MEC, Mercato Comune, dentro il blocco politico militare ed ideologico atlantico. Ma, e questo è un fattore chiave, i due vincoli erano allora in ‘sintonia’. Si sostenevano uno con l’altro. Il vincolo atlantico consentiva uno sviluppo capitalistico europeo sotto un ombrello strategico di sicurezza e difesa; a sua volta il vincolo europeo allargava il mercato europeo anche per il capitalismo nordamericano. I due vincoli si sostenevano e si allargavano reciprocamente.
Il vincolo atlantico aveva preso forma economica con il famoso Piano Marshall, il vincolo europeo successivamente con il MEC, ovvero la liberalizzazione degli scambi commerciali, e con CECA ed EURATOM ovvero l’integrazione della industria pesante e lo sviluppo di quella nucleare a livello continentale.
Tutto ciò, gli investimenti civili americani, la liberalizzazione commerciale europea, le integrazioni industriali del vecchio continente, agivano come potenti agenti di modernizzazione capitalistica, veri e propri carri di traino per il nostro paese. L’influenza culturale americana e anglosassone poi faceva il resto: ovvero la modernizzazione civile. La funzione di modernizzazione del doppio vincolo ci sembra evidente. Vi erano anche aspetti ultra-reazionari, come la strategia della tensione dei ‘poteri occulti’, ma ci pare di poter affermare una preminenza dei fattori di modernizzazione rispetto al resto.
Il sistema politico di governo, poi, riusciva a recepire, seppur con qualche affanno, le spinte di modernizzazione occidentali. Basta qui ricordare la liberalizzazione degli scambi commerciali in ambito MEC e lo scontro duro fra i sostenitori della abolizione dei dazi e la Confindustria, con alcune potenti lobby capitalistiche fieramente avverse alle aperture commerciali. Nel sistema politico di allora, un sistema politico di democrazia centrista tendenzialmente centripeto nonostante le pulsioni di polarizzazione ideologica comunisti/anticomunisti, le forze modernizzatrici riuscivano abbastanza spesso a spostare in avanti equilibri politici ed economici proprio grazie alle spinte ‘esterne’, (appunto il doppio vincolo). La ragione è doppia: gli Stati Uniti allora guidavano un nuovo e forte ciclo capitalistico espansivo, e l’Italia era allora una società molto arretrata rispetto a quelle capitaliste avanzate di cultura egemonica protestante.
Quindi pur fra enormi contraddizioni, basti pensare alla esplosione sociale e poi politica degli anni sessanta, il doppio vincolo agiva sostanzialmente come grande spinta di modernizzazione grazie ad un sistema politico, la ‘democrazia all’italiana’ (la definizione era di un grande politologo americano, profondo conoscitore del nostro paese), una democrazia che comunque riusciva in parte ad elaborare e in parte implementava riforme di modernizzazione.
Per ricapitolare: il ruolo mondiale espansivo allora degli Stati Uniti (un ruolo mondiale di una grande economia ‘sana’, con una robusta base manifatturiera e un forte risparmio nazionale), la sintonia strutturale fra Stati Uniti ed Europa occidentale e un sistema politico nazionale che riusciva in parte a recepire, seppur in ritardo, le spinte modernizzatrici sono stati i fattori chiave della Prima repubblica per quanto riguarda le coordinate geopolitiche della zattera Italia.
Nella Seconda repubblica il quadro è cambiato abbastanza radicalmente. Il vincolo atlantico è andato un po’ sottotraccia: il vincolo nordatlantico è rimasto, NATO e organismi vari sono rimasti molto potenti, la ‘élite del potere’ italico è rimasta attaccatissima al blocco nordatlantico, però le coordinate geopolitiche, o meglio geo-economiche, sono mutate alla radice. L’Unione europea infatti aveva partorito una innovazione quasi rivoluzionaria, una moneta unica che non aveva dietro di sé un apparato militare di conquista e di predazione. Era una innovazione rivoluzionaria nella secolare storia europea e occidentale di colonialismi e neocolonialismi. Per trenta anni, durante il lungo regno politico liberale di Angela Merkel, il vincolo europeo definito dall’euro (ma in realtà strutturato su molti ambiti), era diventato quello più presente. Quasi onnipresente.
Il vincolo europeo ora si dispiegava con una serie di accordi, istituzioni, procedure: in primo luogo la BCE, Banca centrale europea, poi l’insieme delle regole fiscali e di bilancio con le relative procedure di controllo ed infrazione, infine il Next Generation EU e i relativi PNRR, piani per resilienza e ripresa nazionali. Questo insieme è stato costruito pezzo a pezzo, crisi dopo crisi. La moneta impossibile, ‘impossibile’ almeno secondo i suoi tanti detrattori di destra e di sinistra, i famosi No Euro, ha affrontato con efficacia almeno due/tre gravissime situazioni globali, la crisi Lehman e la successiva crisi del debito e delle banche dei paesi europei deboli, nonché la crisi pandemica del covid. La moneta europea le ha affrontate con molte contraddizioni, ma sempre accrescendo strumenti e istituzioni della sua zona economica; il tutto senza avere alle spalle un apparato militare e politico di tipo imperiale. Il tutto avendo alle spalle, invece, la potenza commerciale e manifatturiera dell’economia europea in generale e della Germania in particolare. Ovviamente è inutile soffermarsi sui punti di debolezza di questa costruzione, punti indubbi: c’è peraltro voluto una aggressione russa, una guerra economica imperialista americana e un attacco ad un gasdotto chiave per indebolire molto gravemente questa costruzione. L’ultima crisi di sistema (globale) che sta affrontando la moneta europea, ovviamente, è quella di questi mesi drammatici, le guerre in Ucraina e in Medio Oriente: le sta affrontando in modo molto diverso dalle precedenti vicende, ovvero senza il potente ruolo geo-economico tedesco al centro.
Sia come sia oggi, sta di fatto che il vincolo europeo della moneta unica nei suoi molteplici aspetti ha caratterizzato, anzi dominato la vicenda storica e politica della Seconda repubblica. Esso poteva essere ancora una volta un potente agente di modernizzazione, una leva economica e politica per far crescere stabilmente il nostro paese e il nostro capitalismo, e invece è diventato un capestro per l’Italia. Ciò è accaduto grazie alle incapacità del sistema politico italiano. Ma un sistema politico reale non è composto solamente da partiti. Specialmente in paesi dalla politica fragilissima e porosa. Ci sono, molto influenti o potenti, le istituzioni, gli interessi organizzati, le amministrazioni e gli apparati, e ci sono, specialmente i media, i mezzi di informazione vecchi e nuovi. Quelli che un grande politologo ha chiamato ‘nerves of government’.
Nella Prima repubblica, i partiti erano molto rilevanti e le loro strutture innervavano tutta la società italiana, erano partiti di massa o addirittura ‘partiti-chiesa’. Nella Seconda repubblica, i partiti politici sono stati di gran lunga più deboli, spesso comitati elettorali e d’affari o partiti personali. Con la conseguenza che media e giornali hanno preso un ruolo ancora più forte, nonostante il calo dei lettori. I media, spesso, sono diventati o hanno ulteriormente consolidato la loro appartenenza organica a un campo politico. O meglio sono diventati essi stessi organizzatori del consenso: sono mutati da guardiani critici dei poteri a strutture organiche dei poteri. Ciò mentre il sistema politico italiano da ‘democrazia centrista’ (ovvero con un partito ‘centrale’ non maggioritario ma determinante) mutava forma e pelle e diventava una ‘democrazia bipolarista’.
I sistemi politici di democrazia competitiva, per ben funzionare, abbisognano di diverse condizioni: una di queste, determinante, è costituita dalla rilevanza di una opinione pubblica critica espressione di una borghesia democratica pronta a contestare scelte, governi, leadership o a sostenerle con spirito critico spostandosi a destra o a sinistra. Se questa opinione pubblica borghese e critica non esiste, o è frammentata o manipolata, il guaio è totale.
In Italia, da un lato, le due coalizioni di centrosinistra e di destra erano sempre altamente frantumate ed erano tenute assieme solamente dalla propaganda; dall’altro la borghesia democratica era sostituita dal coacervo di ceti legati al parastato e alla rendita, mentre la pubblica opinione critica era sostituita a sua volta da media partigiani ‘organizzatori’ del consenso nelle rispettive appartenenze. L’Italia, in tutto ciò, ha fatto da apripista in Occidente: siamo stati i precursori della attuale condizione estremamente critica di molte democrazie competitive occidentali, in particolare di quelle che un tempo erano il ‘modello’ per antonomasia, le democrazie anglosassoni.
Si può affermare che il vincolo europeo della moneta unica sia stato uno dei fattori fondamentali che ha consentito all’Italia di andare avanti come Stato unitario, nonostante il peso delle fratture territoriali combinate con un debito pubblico molto alto e una efficienza di larga parte del settore pubblico e di alcune attività private molto bassa. Purtroppo il vincolo europeo interagendo con il sistema politico a bipolarismo disfunzionale italico (disfunzionale come abbiamo accennato per i ceti parastatali che sostituivano la borghesia democratica, e per i media che spesso ostruivano la pubblica opinione critica), è stato elaborato come capestro dagli interessi dominanti nella società italiana. Nella Prima repubblica l’Europa era il carro trainante la modernizzazione nell’ambito del doppio vincolo, nella Seconda poteva essere una potente leva per cambiare il nostro mondo, (datemi un leva e vi solleverò il mondo… diceva un antico) e invece il sistema politico italiano, i partiti ma specialmente, gli interessi, le lobby, i media, hanno costruito un capestro.
Facciamo un esempio, il mercato del lavoro. Nell’era della globalizzazione ad egemonia americana, il lavoro e’ diventato ‘flessibile’. Flessibilità e’ stata ed è una parola d’ordine globale. In verità gli studiosi più accorti parlavano e parlano di ‘flexsecurity’, flessibilità più sicurezza. La piccolissima Danimarca era la bandiera di questa formula economica. Il cancelliere socialdemocratico tedesco che aveva introdotto la flessibilità nel mercato del lavoro del suo paese, in verità, aveva anche stanziato molte risorse in miliardi di euro sonanti per ammortizzatori sociali, politiche attive e la peraltro già ottima istruzione e formazione professionale germanica. In Italia al contrario tutto questo si è tradotto all’inglese in ‘jobs act’ (il noto, o famigerato, provvedimento renziano con cui si e’ ulteriormente e massicciamente flessibilizzato tutto). Renzi ha flessibilizzato tutto ma senza ammortizzatori sociali, senza politiche attive, senza istruzione professionale, adeguatamente dotate di risorse, umane ed economiche. Ma flessibilità senza tutto il resto si traduce in iper-precarietà. La precarietà avanza in tutte le economie avanzate, ma in Italia il fenomeno è davvero strabiliante. Tutto ciò ha portato alla ‘svalutazione salariale’ o meglio alla contrazione del salario. Le imprese, i capitalisti se preferite, invece di introdurre tecnologie, innovazioni, nuovi processi, economie di scala o di nicchia, hanno preferito (e continuano a preferire) usare forza lavoro ad un prezzo sempre più basso. Il punto è che, (considerazioni sociali a parte), ciò ha avuto e ha tuttora effetti disastrosi su una economia ampiamente caratterizzata storicamente produzioni ad alto contenuto di lavoro (il Made in Italy spesso ha questa caratteristica). Piuttosto che innovare, imprenditori e capitalisti preferiscono rimanere ‘imprese familiari’ e sfruttare manodopera non qualificata a basso salario decrescente. Il tutto al grido, (era un altro slogan dell’agenda Renzi-Ichino), ‘c’è lo chiede l’Europa’. L’Europa (quella di allora, ovviamente, quella di Angela Merkel) in realtà ci chiedeva di rendere più efficiente il mercato del lavoro introducendo più flessibilità ma non si sognava di impedirci di stanziare le risorse adeguate per le politiche attive, per gli ammortizzatori, per l’istruzione professionale.
Avremmo dovuto trovare quelle risorse non creando nuovo debito pubblico, ma rivedendo la spesa di governo centrale e governi locali e/o intervenendo su una struttura di tassazione iniqua e particolaristica. Magari con la ‘spending review’ e con la riforma fiscale di tipo organico Mission impossible. Per la semplicissima ragione che i ceti sociali che avrebbero, (un po’), pagato per la revisione della spesa e per la riforma fiscale erano precisamente quelli coccolati da tutti a livello parlamentare ed elettorale. Ovvero i ceti e le classi del parastato o delle rendite privatistiche. Ovvero le basi sociali del mitico ‘centro’. Le basi sociali degli ‘europeisti’ alla matriciana.
Morale, le riforme economiche erano bloccate fino a quando una crisi del debito rischiava di esplodere. Allora arrivava il governo tecnico. Il quale faceva le riforme economiche ma senza molte considerazioni di equità sociale. Le riforme sociali redistributive, poi, ovvero l’altro corno di una formula economica rigorosa ed equa, erano viste (dagli interessi dominanti nella società e nel debole sistema politico bipolarista) come espressioni del demonio. Le durissime polemiche contro il ‘grillino’ reddito di cittadinanza hanno disvelato il carattere di classe delle politiche sociali effettive della Seconda repubblica. Per carità, il reddito di cittadinanza ‘grillino’ doveva essere revisionato per renderlo davvero efficace ma la guerra di lobby, media, formazioni politiche fortemente personalistiche, quelle centriste in particolare, contro l’idea stessa del Rdc è molto indicativa. In conclusione abbiamo avuto riforme economiche solo nella zona Cesarini dei governi tecnici, nonché provvedimenti ‘sociali’ in chiave di mera destra economica e guerra alle riforme sociali redistributive da parte delle destre (il che è abbastanza ovvio) e di larga parte del ‘centrosinistra’ (il che è meno ovvio): questa è stata la trama di fondo, di classe per capirci, della Seconda repubblica. Nella Prima, le formazioni laiche erano state in prima linea per le liberalizzazioni commerciali contro la destra confindustriale, e i partiti di sinistra erano in prima linea per le riforme sociali; nella Seconda, le formazioni ‘centriste’ sono state in primissima linea per accontentare la destra economica, assieme alla destra politica e a frazioni consistenti del centrosinistra; e i partiti di sinistra troppo spesso semplicemente erano di fatto ‘non pervenuti’. Risultato. Politicamente, l’Europa è stata vista dagli italiani come un capestro. Economicamente, abbiamo assistito ad un imponente declino di salari operai, di redditi pro capite, di redditi familiari.
Dunque doppio vincolo nella Prima repubblica mediato da forze politiche modernizzatrici; vincolo dell’euro nella Seconda, mediato da forze politiche sostanzialmente reazionarie. E poi che cosa è successo? Facciamo un salto temporale. L’euro e’ stato salvato (probabilmente due volte) dalla tela politica tessuta dalla Cancelliera Angela Merkel. Presidente della BCE dell’epoca era Mario Draghi, ma senza quella tela merkeliana, le parole londinesi di Draghi sarebbero state mere parole al vento freddo del Mare del nord.
Mario Draghi, dunque, arriva a Palazzo Chigi. Arriva dopo il secondo governo di Giuseppe Conte. Passano pochi mesi e scoppia la guerra in Ucraina: o per essere un pochino più precisi, il conflitto ucraino, incancrenito da anni, prende una nuova strada con la campagna militare di aggressione russa, la cosiddetta ‘operazione militare speciale’. Non stiamo qui ad affrontare quelle drammatiche vicende. Qui ci interessano coordinate e vincoli geopolitici dell’Italia. Con il conflitto in Ucraina, infatti, arriva un nuovo vincolo, non solo per noi ma per tutta l’Europa, quell’Europa che, fino ad allora, era indirizzata verso una certa autonomia geopolitica da Macron e dalla Merkel: nasce il vincolo ‘euroatlantico’ (o per essere precisi, nasce il ‘vincolo euroatlantico squilibrato’: un atlantismo equilibrato con un europeismo social-liberale ben saldo sarebbe tutt’altra faccenda) .
I nemici della geopolitica liberale della Cancelliera potevano prendersi la loro storica rivincita. Dappertutto. Anche in Italia. Nel nostro paese, per tutta la Seconda repubblica, a dirla tutta, gli interessi più filo americani avevano operato obliquamente e sordamente contro Berlino usando la forza residua del vincolo atlantico allo scopo di evitare una implementazione rigorosa ma equa delle regole di bilancio, magari proclamandosi pure ultra-europeisti o ultrarigoristi. Ora quelle forze potevano venire allo scoperto con la loro vera natura, il loro DNA: il dna dei nemici dell’Europa social-liberale. Anche a Berlino, peraltro, seppure dopo altri drammatici fatti, il vento era cambiato, per ora.
Morale, non c’è più un doppio vincolo ma un vincolo ‘euroatlantico squilibrato’ e riunificato nella ‘cannibalizzazione’ dell’Europa. La guerra, anzi le guerre e le arene che compongono il terzo conflitto mondiale a pezzi, sembrano aver introdotto, per ora, queste nuove coordinate geopolitiche anche per l’Italia. Diciamo, ‘sembrano’, perché, come ha argomentato recentemente un grande politologo specialista di relazioni internazionali, ‘le guerre finiscono quando finiscono’: solo a quel punto, quando sono finite, si potranno davvero fare i conti. Non prima.
Comunque Mario Draghi, dall’alto delle sue indubbie relazioni personali nordatlantiche, si pone come il ‘promotore’ e in qualche modo il garante di quel vincolo euro-atlantico per il nostro paese.
Purtroppo per gli europei, (e per il Promotore), questo vincolo ‘euro-atlantico squilibrato’ è organicamente contraddittorio e autodistruttivo. Gli interessi del capitalismo manifatturiero europeo sono profondamente diversi da quelli del capitalismo iper-finanziarizzato americano. Anzi spesso sono antagonistici. Ogni tentativo americano, peraltro intessuto di ulteriori contraddizioni, di creare una qualche base manifatturiera, produce nuove situazioni di accresciuta ‘concorrenza’ fra Europa e Stati Uniti. I costi energetici e di filiere produttive delle guerre per Germania ed Europa sono ora diventati spaventosi. Come sono elevatissimi i costi di una transizione green, (transizione decisamente indispensabile sia chiaro), male concepita e comunque impossibile da gestire con guerre in atto. Fondere UE e USA in un ‘blocco politico militare economico’ (con l’Europa partner junior) ha significato solo far esplodere con una magnitudine impressionante i neo-populismi. Il voto olandese, i sondaggi tedeschi, francesi, austriaci parlano da soli.
L’Italia in questo contesto di un vincolo contraddittorio e autodistruttivo non è messa bene a causa delle storiche dinamiche negative di produttività, salari, redditi, crescita, debito pubblico. Per l’Italia dunque il vincolo euroatlantico è una ghigliottina. Una ghigliottina fondata su almeno tre contraddizioni.
La prima contraddizione l’abbiamo già evocata. Riguarda il conflitto strutturale di interessi fra capitalismo manifatturiero e sociale europeo e quello iper finanziario. L’Italia, con il suo settore manifatturiero strettamente integrato nelle filiere tedesche soffre particolarmente in questa contraddizione.
Oltretutto il settore manifatturiero esportatore è l’ambito economico sul quale si regge la crescita del nostro paese. Certamente il turismo consente di alleggerire i costi di questa situazione, ma francamente ci pare difficile concepire un modello di sviluppo nazionale per il nostro futuro imperniato sul turismo. Insomma l’Italia, assieme ad altre economie, è al centro di questa contraddizione.
La seconda riguarda la legittimazione di istituzioni e valori europei. Il predominio di un vincolo a completa predominanza americana nel momento storico in cui gli stessi Stati Uniti non sono in grado di guidare un nuovo ciclo capitalistico espansivo a livello mondiale, di per sé, delegittima il ruolo europeo. L’Europa infatti appare impossibilitata a difendere gli interessi europei e a garantire il modello sociale europeo. Tre issue, in questo quadro, si sovrappongono fra di loro: gli effetti sulle nostre economie della guerra economica antirussa, gli effetti di una transizione ecologica semplicemente impossibile in tempo di guerre e di conflitto globale, le migrazioni che in questo contesto internazionale diventano ancora meno governabili. Tutto ciò, nel mondo, delegittima la difesa a livello globale degli interessi europei, e, nelle società europee, pone una semplice domanda: se i poteri europei contano molto meno per quale ragione i governi nazionali dovrebbero starli a sentire? Insomma più si parla di Europa, ma meno Europa può sussistere politicamente con una sua identità geopolitica. Per l’Italia, ciò significa un fortissimo peggioramento del contesto europeo.
Ma poi c’è la terza contraddizione. Questo vincolo euroatlantico ha la sua caratteristica fondante nel perno di sicurezza e difesa intese in termini tradizionali, ovvero militari. Ciò impone una allocazione delle risorse pubbliche che può essere facilmente (investimenti nella ‘frontiera spaziale’ a parte) ancora più inefficiente di quella attuale. Per l’Italia questo è un fattore rilevantissimo e molto grave. Il bilancio pubblico italiano già ora alloca malissimo le enormi risorse di cui dispone. Il vincolo della moneta unica, purtroppo, non è riuscito a cambiare questa caratteristica. L’aumento delle spese militari nel bilancio pubblico nazionale, nonché del potere delle forze sociali e politiche nemiche, per interessi di classe e per piccole logiche politiche, dell’Europa social-liberale, rischiano di peggiorare ulteriormente le condizioni economiche e finanziarie del nostro paese.
Un piano europeo per le infrastrutture moderne finanziato a debito, ma senza regole serie di spesa, senza forti imprese tecnologiche europee, senza una forte e fortemente autonoma leadership europea e tedesca, è solo confusionario. E potrebbe essere manna per le speculazioni finanziarie occidentali, di un certo ‘Occidente’, e per il complesso militare-industriale americano. Per l’Italia sarebbe un ulteriore colpo per le sue chances di crescita o provocherebbe un crollo ulteriore dei redditi procapite. Insomma, per l’Italia, questo ‘vincolo euroatlantico squilibrato e espanso da indebitamento potenzialmente non utile’ è una grande ghigliottina. La ‘ghigliottina di Draghi’. La presidente del consiglio cerca di attivare una ‘Med Route’ che faccia del nostro paese un hub importante a livello europeo, spostandone in parte gli assi di sviluppo, ma la partita è molto difficile (ne riparleremo…). La ‘ghigliottina di Draghi’ incombe.
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