GOOD MORNING ASIA
“Per un altro Occidente”
25 aprile – 1 maggio

SOMMARIO

  • BREVE INTRODUZIONE. Dopo due anni di assenza
  • ‘LA GRANDE TRASFORMAZIONE’.
    1. WEST ASIA, Tra ‘Mondo Multipolare’ e ‘Ruolo Globale americano’.
    2. EAST ASIA, I Ri-Allineamenti capitalistici di Pechino.
  • EUROPA, LA GEOPOLITICA CATASTROFICA. Il Ri-Tentativo di Draghi…

 

BREVE INTRODUZIONE

Xi Jinping d’Arabia’. Era il 15 febbraio 2022 quando avevamo pubblicato un pezzo di analisi con quel titolo, per www.geopolitica.info. Oltre due anni or sono. Allora tutti gli occhi di analisti e specialisti di un certo ‘Occidente’ erano appuntati su Ucraina e Russia. Anche se era di tutta evidenza fin d’allora che una delle vicende decisive per il mondo, per la pace e la guerra, per la crescita o la depressione economica e civile globale, sarebbe stata, (nonostante la tremenda tragedia Ucraina), la situazione del Medio Oriente. O per dire meglio, la situazione dell’ex Medio Oriente, ovvero della regione che ad Est di Suez definiscono Asia occidentale. I fatti, anni dopo, ci stanno dando drammaticamente ragione.

Ritorniamo, dopo lunghi mesi di assenza, con le nostre ‘Note’ del ‘Good Morning Asia’ dedicate alla situazione politica-economica globale, quella che ormai è uso chiamare ‘geopolitica’. Ovviamente parleremo di Asia, di politica, geopolitica ed economia dell’Asia-Pacifico, ma allargando lo sguardo. L’Asia-Pacifico, (la regione del mondo che gli americani hanno ridenominato, riduttivamente ‘Indopacifico’), è sempre più l’arena geo-economico/politica più importante e interessante. Lo stesso ex Medio Oriente o Asia occidentale (la ‘costruzione’ del Medio Oriente è una espressione della geopolitica coloniale europea e occidentale proiettata verso la rotta delle Indie, prima, e poi verso il controllo delle immense risorse energetiche della regione…) è nuovamente fortemente collegato con l’Asia-Pacifico.

La costruzione geopolitica merkeliana, che avevamo descritto non solo nelle nostre Note, ed anche in un libro dedicato alla Cancelliera (‘Angela Merkel, Regina d’Europa’, per la Passigli Edizioni), è stata annientata dal combinato della campagna militare di aggressione russa contro l’Ucraina, delle guerre economiche imperialiste degli Stati Uniti contro Cina e Russia, dell’attacco terroristico al Nord Stream: essa era imperniata, tra l’altro, su una relazione liberale (quindi non coloniale o neo-coloniale) del mondo occidentale con la nuova realtà dei Paesi Emergenti, di cui l’Asia Pacifico è il centro di gravità. In altre occasioni cercheremo di spiegare, dal nostro punto di vista, quello che è accaduto alla costruzione merkeliana e quale è la sua effettiva eredità civile (coerentemente liberale).

Ma ritorniamo sull’ex Medio Oriente: oggi partiamo proprio dal pragmatico ‘riallineamento’ geopolitico di questa importantissima regione del mondo, il cosiddetto ‘Perno verso Est’ di Arabia Saudita e Emirati, e della Strategia degli Stati Uniti. Poi ritorniamo sui nuovi ‘assi capitalistici’ di sviluppo cinesi. E infine parliamo di Mario Draghi, neo-candidato alla Commissione europea…
Buona Lettura…

‘LA GRANDE TRASFORMAZIONE’.
1. WEST ASIA, Tra ‘Mondo Multipolare’ e ‘Ruolo Globale americano’.

TRA ‘COORDINAMENTO’ CINA-RIAD E ‘COINVOLGIMENTO’ USA-RIAD…… Nell’ex Medio Oriente, fra guerre e massacri, è in corso una partita globale importantissima. L’ex Medio Oriente, (o West Asia-Asia occidentale, come è più giusto definirlo) si sta riallineando storicamente. I più importanti paesi della regione hanno iniziato già da qualche anno a non vedere più gli Stati Uniti come il loro Grande Partner affidabile e credibile. La drammatica crisi di Gaza sta rafforzando questo processo contribuendo quindi a far ‘svoltare’ il Medio Oriente più verso Est, ovvero verso l’Est globale e verso l’Eurasia.

Arabia Saudita ed Emirati considerano ancora i rapporti strategici con gli Stati Uniti come decisivi. Ma la posizione di Washington molto legata ad Israele e la incapacità americana (almeno per ora) di portare alla creazione di uno Stato di Palestina, (tutti hanno potuto vedere gli Stati Uniti, completamente isolati nelle recentissime riunioni al Palazzo di vetro, esercitare il diritto di veto per evitare che la Palestina diventasse membro a pieno titolo delle Nazioni Unite) stanno influendo negativamente sui popoli e sui governi dei paesi arabi.

L’Arabia saudita e gli Emirati sono stati invitati formalmente l’anno scorso al nuovo formato BRICS plus e quest’anno stanno attivamente partecipando alle riunioni dei BRICS plus organizzate dalla presidenza russa. Riad, nell’ambito del formato OPEC Plus, si coordina con Mosca per la gestione del mercato energetico mondiale. E recentemente, spesso, ha detto numerosi No all’amministrazione Biden quanto a gestione del mercato petrolifero.

Il fatto più importante: Iran e Arabia Saudita hanno raggiunto nel marzo scorso uno storico accordo politico con la mediazione cinese. In tal modo i due più importanti attori islamici dell’ex Medio Oriente hanno messo fine ad un conflitto politico e militare indiretto di lungo periodo. Riad e Teheran hanno anche deciso di pacificare il martoriato Yemen. Riad infine ha scelto di far rientrare la Siria di B. Assad nella famiglia della Lega araba. Insomma Repubblica Islamica e Regno Saudita non solo hanno deciso, con l’assistenza decisiva di Pechino, di mettere fine ad un conflitto strategico chiave ma anche di iniziare a ‘pacificare’ concretamente l’intera regione. D’altra parte non era un caso che, da qualche tempo, Riad e gli Emirati stiano stringendo importanti rapporti con la Repubblica Popolare Cinese.

Non finisce qui. Per discutere della ‘guerra’ di Gaza, i ministri degli esteri di Cina e di Arabia Saudita hanno avuto, il 16 aprile scorso, un interessante colloquio telefonico, interessantissimo per i concetti utilizzati da Pechino nel parlarne. Ovvero, ’Comunicazione e coordinamento’. Comunicazione è una definizione ovvia in linguaggio diplomatico in particolare in quello cinese. ’Coordinamento’ fra le diplomazie e le politiche della Cina e dell’Arabia saudita, invece, è un termine un po’ meno ovvio.

Facciamo mente locale: ‘coordinamento’ è un concetto che richiama le letture cinesi (con lo stesso termine o con parole affini) di almeno due vertici decisivi, se ricordiamo bene: quello fra l’allora presidente cinese Jiang Zemin e l’allora presidente francese Jacques Chirac poco prima dell’inizio delle operazioni militari americane nella seconda guerra del Golfo, quella di Bush junior e Cheney; e quello fra l’allora primo ministro cinese Wen Jiabao e l’allora Cancelliera tedesca Angela Merkel poco prima di un importante summit del G20 che doveva trattare della situazione economica globale. In entrambi i casi la Cina si coordinava con due potenze europee importanti di fronte a scelte americane. Stavolta il ‘coordinamento’ riguarda la Cina, massima economia manifatturiera del mondo ed Arabia Saudita la principale potenza petrolifera mondiale.

Nella lettura ufficiale di Pechino c’è un altro concetto molto interessante. Si legge, ‘il ministro degli esteri del regno saudita ha espresso completa fiducia nella Cina’. Dunque ‘coordinamento fra Cina e Arabia Saudita’ e ‘completa fiducia dell’Arabia saudita nella Cina’. Cina e Arabia Saudita stanno facendo un percorso politico e geopolitico molto ‘interessante’. La ‘completa fiducia’ è anch’essa particolarmente ‘interessante’: qui probabilmente è necessario entrare un po’ nelle particolari dinamiche politiche del Golfo. Riad teme il ruolo e il peso dell’Iran, poichè la Repubblica Islamica continua ad essere una potenza ‘rivoluzionaria’, ovvero espressione di una rivoluzione che intende ‘esportare’ anche nei paesi del Golfo. La recentissima mediazione cinese ha messo fine ad un conflitto non solo politico, e ha riavvicinato un po’ i due grandi attori regionali. Riad vuole consolidare la situazione positiva per i grandi programmi di sviluppo del principe della Corona BinSalman; Teheran vuole uscire dall’isolamento imposto dagli Stati Uniti con la durissima politica di sanzioni.

Ma rimangono molti sospetti e forti timori reciproci: come quelli, appunto, figli della legittimazione ‘rivoluzionaria’ del regime iraniano. Pechino da questo punto di vista arabo, ha il ‘compito’ di annullare il pungiglione velenoso della rivoluzione iraniana. ‘I sauditi hanno completa fiducia nella Cina’, per l’appunto.

Mentre gli Stati Uniti non hanno canali di influenza con Teheran e le politiche di assertività militare contro la Repubblica Islamica sono pericolosissime per gli interessi di Riad e di tutti i paesi del Golfo a causa delle conseguenze che correrebbero giacimenti di petrolio e rotte marittime, la Cina ha molti canali di influenza sull’Iran e quindi in questo senso da garanzie all’Arabia saudita e agli Emirati.

Così l’intero ex Medio Oriente si è messo a girare, lentamente o vorticosamente a seconda delle congiunture e dei paesi verso Est, verso la Cina, la Russia, l’India, l’Asia orientale e meridionale. L’Iran è ormai il partner chiave dell’’Eurasia’ cinese e russa nell’ex Medio oriente. L’Arabia saudita, come abbiamo sommariamente visto, assieme ai paesi del Golfo, approfondisce queste relazioni ‘euroasiatiche’. Solamente l’altro giorno, il CEO di Saudi Aramco ha fatto notare come nei prossimi anni l’80 per cento dell’export di greggio del regno sarà verso economie del Sud del mondo. Insomma Riad e Sud del Mondo, Riad e Est globale sono connessi sempre di più e la diplomazia sta seguendo l’economia politica.

E gli Stati Uniti? Appare chiaro che una svolta geopolitica ed economica dell’ex Medio Oriente verso Est e verso Sud mette seriamente in pericolo il ruolo globale americano per tanti versi. Uno su tutti: il ruolo globale del dollaro, già sottoposto in questi anni, al processo di de-dollarizzazione aiutato anche dalle politiche economiche coercitive volute da Washington. Il dollaro ha un ruolo importantissimo (anche) grazie al fatto semplice che è la valuta del mercato energetico mondiale, scelta proprio da Riad e dai paesi del Golfo: dollaro in cambio di protezione strategica.

Questo equilibrio chiave per l’’ordine internazionale basato sulle regole’ americane verrebbe sicuramente meno se Riad ed Emirati decidessero per il petroyuan e per uno strumento di transazione globale ‘no Dollar’. Quindi appare naturale il tentativo americano di cercare di stoppare questa tendenza storica dell’ex Medio Oriente. Come? Con la riproposizione allargata dei cosiddetti ‘accordi di Abramo’, gli accordi cioè di normalizzazione fra Israele ed alcuni paesi arabi. Gli Stati Uniti vogliono mettere in tal modo in piedi una alleanza strategica fra Israele e quei paesi arabi sotto la ‘supervisione’ americana, ovviamente. La ragione sociale di codesta alleanza strategica sarebbe la ‘minaccia iraniana’.

L’Arabia Saudita è il paese chiave di tutta questa architettura strategica, senza il quale nulla avrebbe senso. Il principe della Corona ha così aderito ad un complesso processo di negoziazione con gli Stati Uniti chiedendo, potremo dire in cambio della normalizzazione saudito-israeliana, un ‘patto di sicurezza saudita-americano’, chiedendo fra l’altro, forniture di armi avanzate americane e partecipazione ad un programma nucleare saudita. Tutte condizioni molto forti per Washington, tanto che opposizioni e critiche all’amministrazione per questa idea di un accordo di sicurezza con il Regno saudita piovono da moltissime parti.

Da ottobre la questione palestinese è al centro della vicenda mediorientale. Per diverse ragioni, (impossibilità di non porre la questione di fronte alle pubbliche opinioni arabe; ruolo storico della Casa saudita; pressioni anche da altri paesi come l’Iran), Riad ha posto come condizione preliminare per la normalizzazione con Israele un ‘percorso irreversibile’ verso lo stato palestinese. E ovviamente la fine del massacro a Gaza. Da settimane, anzi da mesi, capitali arabe e diplomazia americana sono impegnate a far quadrare il cerchio. L’accordo per Gaza e la Palestina, a questo punto, è uno snodo essenziale per cercare di far avanzare il progetto americano. Che punta ad una coalizione arabo-israeliana contro l’Iran.

I punti deboli di questa costruzione sono ‘consistenti’, li esaminerò in altra Nota: la faccenda qui rilevante è la natura di questo progetto, almeno per come è visto da parte americana, come contrario al ruolo dei BRICS nell’ex Medio Oriente. Washington cioè punta a creare una specie di bipolarismo strategico nell’ex Medio Oriente, da un lato l’Iran sostenuto da Cina e Russia, d’altro lato alla coalizione arabo-israeliana con gli Stati Uniti nella stanza dei bottoni e magari la NATO nella dependance della servitù. Ripetiamo: questa costruzione geopolitica americana ha evidenti punti deboli. Purtuttavia essa è la risposta Usa al progetto ‘multipolare’ cinese ed asiatico per l’ex Medio Oriente, e ciò è quello che qui, ora, ci interessa.

Il principe della Corona saudita BinSalman il 29 aprile scorso, ha detto: ‘L’Arabia saudita vuole giocare un ruolo di stabilizzatore nella regione’, ‘Coesione e cooperazione con i partner regionali e globali è la chiave per avere sicurezza e prosperità’. Con i partner regionali e globali, quindi Stati Uniti, (ma pure, si potrebbe aggiungere, Cina e Russia..). Arab News, sostanzialmente una fonte ufficiosa di Riad, ha scritto, il primo maggio, che tutto è sul tavolo con gli Stati Uniti, oltre gli accordi militari ‘dalla cooperazione spaziale al programma nucleare saudita’. E che, (attenzione!!!), potrebbe esserci un accordo ‘limitato’ Riad-Washington senza la normalizzazione Riad-Israele. Ciò introduce un nuovo fattore nella delicatissima equazione geopolitica mediorientale e saudita-americana: un accordo anche militare fra Riad e Washington senza la normalizzazione Riad-Israele, senza un percorso per uno stato palestinese, anzi con Israele che continua la guerra, sconvolgerebbe il quadro dei rapporti storici americano-israeliani. Sia come sia, Arab News significativamente aggiunge che, in questi mesi, i funzionari sauditi hanno dato assicurazioni sulla priorità dei rapporti con gli Stati Uniti, ma poi aggiunge, altrettanto significativamente, ‘è anche cresciuta la consapevolezza americana che il Regno ha altre opzioni, un mucchio di altre opzioni, commerciali, di affari, militari’. E si ritorna ai colloqui (e al ‘coordinamento’ ) sino-sauditi.

Tra il ‘coordinamento’ sino-saudita e il ‘coinvolgimento’ americano-saudita, l’Arabia saudita a che punta? A bilanciare astutamente Stati Uniti ed Eurasia, Cina in testa, per ottenere armi avanzate e tecnologia nucleare Usa, dando poco in cambio (ma questa è solo la nostra ipotesi basata su dichiarazioni politiche e dati economici)? O anche, addirittura, a rompere il perno americano in Medio Oriente, ovvero la relazione specialissima Israele-Usa?

‘LA GRANDE TRASFORMAZIONE’.
2. EAST ASIA, I ri-allineamenti capitalistici di Pechino

La Cina sta operando un ri-allineamento storico dei suoi assi capitalistici. E lo sta facendo, per ora, pare con un certo successo. Due sono in realtà gli assi di questi ri-allineamenti capitalistici. Uno interno ed uno globale.

Il ri-allineamento interno riguarda i motori della crescita economica. Negli ultimi anni, il settore immobiliare ha svolto un ruolo chiave per assicurare da un lato punti di Più ulteriore, e dall’altro lato, per dare case ai cinesi che arrivavano in città dalle regioni interne e per dare risorse agli affamatissimi governi locali. La crescita dell’immobiliare in Cina è strettamente connessa con le politiche economiche e di bilancio di governi locali e municipali.

Questo enorme ruolo dell’immobiliare, i numeri spettacolari della crescita, i numeri delle migrazioni interne, hanno creato le condizioni, come spessissimo accade nel mondo capitalistico, di una grande bolla economica. Le società immobiliari e i governi locali sono andati avanti costruendo piramidi di debiti sempre più ampie e pericolose. Le autorità di Pechino, già da alcuni mesi, avevano deciso di far sgonfiare questa bolla, possibilmente senza devastare la crescita economica. I numeri della disoccupazione giovanili, infatti, sono piuttosto seri al riguardo. E quindi hanno deciso, da un lato, di fare sgonfiare la bolla con una certa gradualità e senza sostenere ’l’azzardo morale’ degli ‘sviluppatori immobiliari’ (così si chiamano gli istituti della finanza immobiliare cinese); dall’altro lato, allo stesso tempo, hanno scelto di trovare un’altro motore per la dinamica dell’economia cinese. E l’hanno trovato nel settore tecnologico.

Gli ultimi dati mostrano che ci starebbero riuscendo (in queste situazioni, è sempre bene evitare di appiattirsi su dati di congiuntura, e per questo usiamo il condizionale) abbastanza bene: il settore tecnologico ha ormai raggiunto quello immobiliare quanto a incidenza del Pil. A questo punto, le autorità hanno deciso di dare un colpo d’ala al tecnologico anche con l’intervento della People’s Bank of China, la Banca centrale, mediante ‘QE mirati’ alle imprese, in particolare piccole e medie imprese, del tecnologico. Se l’operazione riuscirà, la Cina svolterà con relativo poco costo economico e si incamminerà in un sentiero di crescita molto innovativo.

Secondo alcuni esperti bene informati sarebbe però anche il caso di fare forti interventi per l’espansione del settore sanitario: il covid ha mostrato serie deficienze nella sanità cinese, e d’altra parte la sanità è un settore ad alto contenuto tecnologico. Una sanità pubblica avanzata darebbe anche un importantissimo contributo alla crescita di consumi ‘sociali’ decisivi. E darebbe carburante ad una spinta di consumi. Il cinese medio, non dovendo più risparmiare per cure future, avrebbe un po’ più di propensione al consumo individuale rispetto ad ora. Non solo: una società con indici demografici deboli abbisogna di un forte settore sanitario. Quindi da questo punto di vista, empiricamente, sarebbe molto interessante capire quanti ospedali nuovi i cinesi stiano costruendo in questi mesi.

Poi c’è il settore spaziale, dove la Cina sta, quatta quatta, puntando moltissimo: il suo programma verso Marte è semplicemente impressionante, se Pechino sarà davvero in grado di metterlo in piedi (noi non sappiamo se ciò sarà possibile, ma non dovremo mai sottovalutare Pechino…). È poco noto, oltretutto, che gli investimenti nello spazio hanno un moltiplicatore molto molto maggiore, ad esempio, di quelli in ambito strettamente militare, il cosiddetto ‘keynesimo militare’, decisamente sopravalutato quanto ad impatto economico|.

Settore tecnologico, settore sanitario, settore spaziale sono un importante trittico di crescita. Sia come sia, il settore tecnologico sta sostituendo, pare, quello immobiliare come traino della dinamica economica cinese e questo è il ri-allineamento capitalistico interno.

C’è poi quello globale: nei primi mesi del 2024, i paesi del Sud del mondo più quelli Asean hanno superato nell’export cinese i paesi ‘avanzati’ occidentali, Stati Uniti più Europa e dintorni. Ciò costituisce un fatto semplicemente epocale: è un cambio storico nel capitalismo cinese e nel capitalismo mondiale indotto anche dalle guerre economiche e tecnologiche di Washington contro Pechino, da Huawei ai chip. Tutto il tempo della globalizzazione made in Usa infatti è stato scandito dall’incremento esponenziale dell’export cinese verso i paesi avanzati dell’’Occidente’. Ora questo mondo sta finendo e la Cina cerca di costruirne un’altro.

Ri-allineamento capitalistico globale, accordi economici e commerciali internazionali, ad iniziare dall’RCEP e continuando con quelli sulla Via della seta e con l’area Asean, la ri-organizzazione delle catene del valore spesso dirette da imprese e capitalisti cinesi nel sud est asiatico o in Asia del Sud, infatti stanno iniziando a ri-disegnare un nuovo assetto capitalistico globale in cui la Cina e l’Est globale si interconnettono sempre di più con il ‘Sud del mondo’ mentre l’’Occidente’ a guida americana tende a chiudersi in sé stesso in ambito geo-economico, con sanzioni, misure coercitive, guerre tecnologiche ed economiche variamente declinate, ovvero con politiche protezionistiche unilaterali’. Non sappiamo quanto questi due ri-allineamenti capitalistici made in China avranno successo, ma faremmo bene a smettere di valutare il Dragone con i pregiudizi della pretesa ‘supremazia’ o della pretenziosa ‘superiorità’ morale e intellettuale.

Tentiamo a questo punto una brevissima sintesi. Pechino, sotto la sfida di alcune serie contraddizioni interne (la crisi del settore immobiliare e gli andamenti demografici) e sotto la spinta delle ‘pressioni’ esterne, (ovvero le guerre economiche e tecnologiche americane contro la sua ascesa, dai dazi alle misure coercitive), ha deciso da un lato di puntare sul settore tecnologico e le alte tecnologie, e dall’altro lato di accrescere le sue connessioni con il ‘Sud del mondo’, sostituendo l’’ Occidente’ con il rapporto con il ‘Terzo Mondo’ (la linea strategica della Conferenza afroasiatica dei Noi Allineati). Ciò potrebbe determinare nuove condizioni nello sviluppo capitalistico mondiale, da un lato; e ciò pone comunque alcune questioni delicate nell’attuale epoca di conflittualità geopolitica di sistema.

Sul primo punto: l’economia globale necessita di una nuova fase di accumulazione e di espansione a livello mondiale. Un economista italiano, Giovanni Arrighi, ha spiegato in modo molto interessante le diverse, successive fasi di allargamento dei processi capitalistici a livello internazionale. Siamo probabilmente in una situazione del genere: stiamo per entrare, se il capitalismo rimarrà vivo e vegeto, in un nuovo ciclo di allargamento dei processi economici. D’altra parte un altro economista, il grande Joseph Schumpeter, aveva spiegato i cicli capitalistici come cicli di innovazioni e imitazioni, di grandi innovazioni che definivano e ridefinivano gli assetti economici generali.

La Cina assieme all’Est globale, che fa parte dell’RCEP (l’Accordo economico pan-asiatico, che ricomprende tra gli altri, assieme, Cina e Giappone!), punta ad allargare i processi economici verso il Sud del mondo con le vie della seta, gli investimenti civili, le intese economiche a varia dimensione. Il Giappone, per alcuni versi, segue Pechino su un suo proprio sentiero. Anche la crescita del settore tecnologico può essere vista, oltre che con una logica interna, in modo funzionale a questo processo capitalistico di allargamento globale: basta guardare alle tecnologie 5G, alle reti di telecomunicazione, alla cooperazione spaziale promossa da Pechino.

Mentre l’’Occidente’ fa sanzioni e cerca di segmentare i recinti dell’economia globale, Pechino cerca di allargare i processi capitalistici. Sia la crescita dell’export verso il Sud del mondo e il sud est asiatico, sia la crescita dei rapporti politici e di import energetico con l’Asia occidentale, rientrano esattamente in questo quadro. Sul lato dell’export e su quello importantissimo dell’import di petrolio e forniture energetiche. Tutto ciò potrebbe avere conseguenze enormi, anche se ovviamente si tratta di processi molto complessi e tutt’altro che deterministici.

La Cina ha posto questa sfida globale. Non è detto che riuscirà a sostenerla adeguatamente. Ma l’’Occidente’ potrebbe raccogliere il guanto della sfida in termini di ‘geopolitica liberale’, ovvero in termini di una robusta e dura competizione economica e politica, di co-governance delle sfide globali (ad iniziare da clima e ambiente), e di una indispensabile ricerca di norme condivise: in tal caso gli assetti capitalistici mondiali potrebbero essere il punto di sintesi creativa fra culture e ‘mondi’ doversi.

Oppure l’’Occidente’, in particolare gli Stati Uniti, possono continuare sull’attuale geopolitica ‘assertiva’ neocon (Il ‘Nuovo secolo americano’ o la ‘Pace attraverso la forza’, che dir si voglia), ovvero con le vuote missioni cinesi di Janet Yellen prima, e Anthony Blinken l’altro giorno. Da questo punto di vista, però, è semplicemente impressionante la differenza fra il CEO di Tesla, Elon Musk, ricevuto in Cina con tutti gli onori, e la totale assenza di riguardo diplomatico per il segretario di stato Usa Anthony Blinken. ‘I fatti devono seguire le parole’, ha detto il presidente cinese all’esponente dell’amministrazione Biden: evidentemente per Pechino i fatti di Musk seguono le parole, quelli di Biden no.

Qui arriviamo al secondo punto: l’interazione dei processi capitalistici con l’attuale periodo dei conflittualità geopolitica di sistema. Un’altro economista italiano, Emiliano Brancaccio, si sta sgolando per cercare di spiegare questo periodo di guerre e conflitto come figlio di enormi contraddizioni economiche, in particolare fra economie creditrici nette ed economie debitrici nette. E mette l’accento sulla necessità di una sorta di grande accordo economico mondiale riguardante il ‘protezionismo unilaterale’ americano per uscirne. Sono tutte cose che hanno molto senso.

C’è però, secondo noi, un problema: l’attuale conflittualità geopolitica di sistema, da un lato, è probabilmente anche il prodotto dell’impossibilità (per ora, per il futuro si vedrà..) , stante le caratteristiche di fondo di alcuni attori globali dominanti di arrivare oggi a questo tipo di accordi mondiali. Dall’altro lato, sono precisamente le dinamiche, l’evoluzione della conflittualità geopolitica di sistema nonché l’interazione di queste conflittualità geopolitiche con i sistemi politici nazionali che condizioneranno pesantemente i termini di un nuovo assetto globale (se ci sarà un ‘nuovo assetto globale’…) sulla base di un accordo: Bretton Woods seguì il lungo periodo delle due guerre mondiale attraversato dalla Grande Depressione.

Tutto è in divenire: ciò purtroppo accade con terribili tragedie, guerre e massacri (che spesso neanche si ha il coraggio e l’onestà di definire per quello che sono, massacri appunto). Per questa ragione, tendiamo a pensare che le idee di un futuro di ‘blocchi contrapposti’ o di una ‘separazione’ fra settori ad alto contenuto tech e settori a basso contenuto tech siano del tutto errate; sono solo il frutto di vecchi paradigmi non più validi nel mondo alla disperata ricerca del prossimo ciclo capitalistico di accumulazione mondiale.

‘EUROPA, LA GEOPOLITICA CATASTROFICA’.
Il ri-tentativo di Draghi…

Mario Draghi ci riprova. Ci riprova ad accasarsi in una importante posizione istituzionale. Dopo il tentativo francamente dilettantesco di corsa al Quirinale. Dopo aver fatto evaporare come neve al sole di agosto la amplissima maggioranza del suo governo. Ora ‘Mariolino’ (come lo ha chiamato recentemente un suo conoscente) ci prova con la guida della Commissione europea. Lo fa, con il suo ‘stile’, parlando ad un pubblico ‘scelto’ europeo. Esattamente come fece con la sua ‘entrata in politica’: allora lo fece con il discorso al pubblico scelto di Comunione e Liberazione; oggi con il discorso alla conferenza sull’’Europa sociale’. Un pubblico scelto italiano allora, un pubblico scelto europeo oggi. Lo fa in sintonia, pare, con una altro ex presidente del consiglio italiano, il pd Enrico Letta.

Il 26 gennaio scorso, il Governatore della Banca d’Italia (quindi non proprio l’ultimo arrivato), Fabio Panetta (già autorevole e rispettato membro del board ristretto della BCE) ha fatto un discorso piuttosto interessante che varrebbe la pena di leggersi con attenzione quell’intervento di Panetta.

‘Dato il ruolo che svolgo – premette il Governatore – potreste aspettarvi che oggi analizzi il ruolo internazionale dell’euro da una prospettiva puramente monetaria. Ma non quello che farò’. E argomenta: ‘la finanza è uno strumento al servizio del benessere collettivo, l’euro non fa eccezione. Obbiettivi e implicazioni della moneta unica vanno ben oltre la sfera monetaria. Il successo dell’euro come valuta di riserva internazionale influenza il ruolo dell’Europa nel panorama economico e finanziario mondiale; incide – udite udite – sulla nostra collocazione geopolitica, sulla nostra – attenzione attenzione – autonomia strategica’. Quindi il Governatore mette subito i piedi sul piatto: l’Europa deve lottare per la sua ‘autonomia strategica’, concetto gollista, e l’euro è un suo importantissimo strumento.

Più in là spiega, ‘una valuta internazionale costituisce un formidabile pilastro dell’autonomia strategica del paese emittente. La sua valenza strategica appare oggi con chiarezza agli occhi di tutti i cittadini europei’. Dunque l’Europa deve essere strategicamente autonoma e un euro forte e rispettato è una risorsa chiave. Un euro stabile e non sottoposto all’instabilità macroeconomica. Infatti successivamente Panetta spiega come il primo ingrediente per il rafforzamento del ruolo internazionale dell’euro sia proprio la ‘stabilità macroeconomica’. Tradotto: niente aumenti dei debito ‘’inutili’’ (qui il virgolettato è mio, non del Governatore): è ovvio che emettere molto debito pubblico con bassa crescita, senza disciplinare i meccanismi della spesa e delle entrate, e senza adeguati strumenti di investimento pubblico assicura non la stabilità ma la ‘’instabilità macroeconomica’’ (anche qui il virgolettato è del sottoscritto).

Già tutto questo è molto interessante ma la parte migliore arriva adesso. ‘I paesi che emettono una valuta internazionale – argomenta Panetta – possono far leva sul proprio potere finanziario per incidere sugli sviluppi geopolitici a livello globale’. Ovvio. Continua, ‘tale potere va tuttavia utilizzato con saggezza, in quanto i rapporti internazionali sono parte di un ‘gioco ripetuto’: l’utilizzo di una valuta a mo’ di arma potrebbe ridurne l’attrattività e stimolare l’uso di monete alternative’.

Prima il discorso era molto molto felpato; qui il discorso diventa, sempre con un linguaggio felpato, più trasparente: il Governatore vuole l’autonomia strategica dell’Europa, via euro e quindi in rapporto competitivo con l’altra grande moneta dell’Occidente, il dollaro americano e avverte che una valuta internazionale non deve essere usata sistematicamente come un’arma a rischio di un suo strutturale indebolimento.

Si ricorderà che Mario Draghi sostenne e continua a sostenere ancora oggi la strategia della ‘guerra economica e finanziaria totale’ contro la Russia, basata precisamente sull’utilizzo del dollaro e delle istituzioni dell’ordine mondiale monetario del dollaro a ‘’mo’ di arma’ nucleare, dal punto di vista socio-economico, contro un soggetto globale. L’argomentare di Panetta, dunque, appare molto felpato ma abbastanza trasparente; comunque esso è coerente con il suo paradigma geopolitico e con una precisa interpretazione degli interessi autonomi dell’Europa.

Che dice, invece, l’ex presidente del consiglio? Lasciamo perdere le ‘inesattezze’. Ad esempio come quella secondo cui ‘altre regioni non stanno più giocando secondo le regole’, dimenticando che sono gli americani che hanno scardinato il sistema WTO impedendo di farlo funzionare anche non designando i membri. Andiamo al sodo.

L’intervento di ‘Mariolino’ si caratterizza per una vera fiera di buon senso sui pilastri di una possibile strategia di rafforzamento della competitività europea dimenticandosi, però e questo è il dato importante, di due fattori chiave a cui non si fa accenna se non di passaggio. Eppure si tratta di due fattori centrali, anzi decisamente fondamentali per la costruzione di qualsivoglia strategia politica, geopolitica, economica di una Europa unita (e possibilmente autonoma).

Il primo fattore è di carattere economico (o meglio primariamente economico). Per ripristinare la competitività perduta (una competitività che è stata piuttosto robusta per tutta l’epoca della Cancelliera Angela Merkel; competitività che è stata distrutta, è sempre bene ricordarlo, dalle azioni politiche messe in campo dal coacervo anti-Merkel ora dominante) è abbassare stabilmente i costi dell’energia. Pare ovvio, ma Draghi ricorda la questione chiave solamente di sfuggita, (citiamo: ‘in altre regioni, le industrie non solo affrontano costi energetici inferiori’), manco fosse una questione neppure secondaria. Essa invece è decisamente prioritaria.

È indispensabile, quindi, avviare una vera rivoluzione energetica che innovi e allo stesso tempo è indispensabile, per ora e per il futuro immediato, trovare fornitori che riportino quel costo dell’energia al livello dell’epoca della Cancelliera. Sostituendo il convenientissimo gas russo, ovviamente.

Quali sono i potenziali paesi fornitori che potrebbero darci, gas e risorse energetiche a un prezzo basso e stabile nel tempo, per un tempo sufficiente a implementare la rivoluzione energetica? L’ex presidente del consiglio non solo non risponde ma neppure si pone la domanda. Eppure senza un costo dell’energia basso e governabile è vano parlare di competitività. Basta conoscere un po’ di geografia politica ed economica per capire che il problema non solo è centrale ma è pure alquanto complicato. Dovunque il geografo volga lo sguardo, se l’Europa vuole avere gas ed energia ad un prezzo accettabile e stabile nel tempo, trova diversi paesi potenziali, ma tutti o collegati al mondo BRICS plus o comunque ‘paesi emergenti’ con forti relazioni con Cina e/o Russia. Algeria, Venezuela, magari la Nigeria e la regione del golfo di Guinea. O la Turchia come hub energetico per l’Europa. Lasciamo perdere l’Iran. Sono tutti paesi che sono entrati o che vogliono entrare nel BRICS Plus o che comunque hanno stretti legami con Russia e/o Cina. Ripetiamo: per avere energia ad un prezzo accettabile e stabile nel tempo, senza il quale l’industria manifatturiera puramente e semplicemente sloggia, o per dirla in modo raffinato, ‘delocalizza’, è indispensabile guardare a quei paesi.

Ovviamente ci sarebbe un altro modo per ripristinare la competitività perduta grazie alla linea politica degli antiMerkel, ovvero anche in presenza di un costo elevato dell’energia: si tratta di una drastica riduzione del costo del lavoro, ovvero di una forte svalutazione salariale. Però in tal caso non si comprende proprio come si possa immaginare una forte domanda effettiva nel mercato interno europeo in presenza di una drastica svalutazione salariale per assicurare ‘competitività’ alle produzioni europee.

Insomma delle due l’una: o si cercano i paesi che possono darci energia a un prezzo accettabile e stabile nel tempo per il tempo sufficiente, ovvero un prezzo non sottoposto alle oscillazioni quotidiane del mercato del Brent; oppure si implementa una politica di fortissima svalutazione salariale.

Abbiamo il (forte) sospetto che ‘Mariolino’ abbia in testa proprio quest’ultima opzione, che poi non è altro che la ‘via italiana al sottosviluppo’. Ma in tal caso dove andrebbe a finire il ruolo internazionale dell’euro, dove andrebbe a finire la stabilità macroeconomica predicati dal Governatore? Bassi e precari salari, bassa domanda effettiva, alto debito, crescita contraddittoria: è questa la famosissima ‘agenda Draghi’? O per essere più precisi, è questa l’’agenda Draghi-Giavazzi’? L’economista, con un editoriale sul Corriere della sera, scomodando niente di meno che Alexander Hamilton (l’Unione europea però non assomiglia proprio per istituzioni e storia agli Stati Uniti dell’epoca di Hamilton e del ‘The Federalist’!!!), propone l’aumento vertiginoso del ‘debito europeo’ e la istituzione di una Agenzia europea del debito (un nome che farà furore presso la IG Metall in Germania!!!). Fare debito pubblico (modello Singapore) per investire è (altamente) positivo: è ciò che hanno dimostrato già da tempo economisti come Paul Samuelson. Il punto un po’ delicato è che se il debito viene contratto per fare spese altamente improduttive (come sono in linea di massima le spese militari) e da paesi con meccanismi di bilancio altamente improduttivi, come l’Italia (che non rìesce neppure a spendere le risorse NGEU!!!), esso è per definizione debito inutile e pericoloso.

Ricapitoliamo. Salari bassi e precari, crisi e buco della domanda effettiva, alto debito europeo per spese improduttive e con meccanismi di bilancio improduttivi, economia di servizi a basso valore aggiunto: questa è l’’agenda Draghi-Giavazzi’, al posto dell’agenda liberale ovvero salari più elevati, basso e stabile costo dell’energia basso, debito europeo solo per investimenti produttivi e innovativi, forte economia manifatturiera, nuovi progetti come Airbus? Fin qui il primo fattore, quello, diciamo, economico.

Poi vi è un secondo fattore, politico, apparentemente dimenticato dall’ex presidente del consiglio e dal suo consigliere, eppure determinante per il tema della competitività o di qualsivoglia strategia dell’Europa, comunque esso sia declinato: chi dovrebbe dirigere la baracca, chi dovrebbe tenere il timone per governare i ‘cambiamenti’? Se si parla di ‘cooperazione rafforzata’ come ha fatto Draghi, per guidare la baracca è indispensabile un ‘Core Group’ forte, autorevole, autonomo di paesi e di governi. Traduzione: è indispensabile una forte, autorevole, indipendente, autonoma, leadership della Germania, più Francia, Spagna, Austria, Olanda e magari Italia. Un gruppo di paesi convinti, convergenti, con forte sostegno popolare (autorevoli) e indipendenti (rispetto agli Stati Uniti in primo luogo).

A meno che Draghi non pensi che, in regime di ‘cooperazione rafforzata’, la guida possa essere presa da una presidenza di commissione e da una commissione senza alcun mandato popolare e politico. E che una tale commissione possa imporre a governi, società e capitalismi nazionali i ‘cambiamenti’. Se Draghi pure riuscisse a conquistare la Commissione e avesse in testa questa idea, avremmo come conseguenza sistemica una AfD Più ‘Ragione e giustizia’ al quadrato e una LePen più Melanchon all’ennesima potenza quanto a forza sociale ed elettorale.

Con l’’agenda Draghi-Giavazzi’ rischieremo davvero di scavare la fossa all’euro, una moneta ‘impossibile’ secondo i suoi tanti critici e che ha resistito, con la leadership social-liberale tedesca, a tre ‘crisi’ come Lehman, PIIGS e Covid, innovando e crescendo. Un forte seguace di Draghi fin dalla crisi del 2011, Renato Brunetta, socialista da sempre, economista del lavoro ed attuale presidente del CNEL, cerca di spiegare nel ‘Grande Imbroglio’, come una uscita dell’Italia dall’euro, se fatta per scelta, sarebbe possibile ed anche positiva.

Fabio Panetta
Mario Draghi
Enrico Letta
Francesco Giavazzi
Renato Brunetta

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