GOOD MORNING ASIA
“Per un altro Occidente”
31 marzo – 9 aprile
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SOMMARIO

 

BREVE INTRODUZIONE

Xi Jinping d’Arabia’. Era il 15 febbraio 2022 quando avevamo pubblicato un pezzo di analisi con quel titolo, per www.geopolitica.info. Oltre due anni or sono. Allora tutti gli occhi di analisti e specialisti di un certo ‘Occidente’ erano appuntati su Ucraina e Russia. Anche se era di tutta evidenza fin d’allora che una delle vicende decisive per il mondo, per la pace e la guerra, per la crescita o la depressione economica e civile globale, sarebbe stata, (nonostante la tremenda tragedia Ucraina), la situazione del Medio Oriente. O per dire meglio, la situazione dell’ex Medio Oriente, ovvero della regione che ad Est di Suez definiscono Asia occidentale. I fatti, anni dopo, ci stanno dando drammaticamente ragione.

Ritorniamo, dopo lunghi mesi di assenza, con le nostre ‘Note’ del ‘Good Morning Asia’ dedicate alla situazione politica-economica globale, quella che ormai è uso chiamare ‘geopolitica’. Ovviamente parleremo di Asia, di politica, geopolitica ed economia dell’Asia-Pacifico, ma allargando lo sguardo. L’Asia-Pacifico, (la regione del mondo che gli americani hanno ridenominato, riduttivamente ‘Indopacifico’), è sempre più l’arena geo-economico/politica più importante e interessante. Lo stesso ex Medio Oriente o Asia occidentale (la ‘costruzione’ del Medio Oriente è una espressione della geopolitica coloniale europea e occidentale proiettata verso la rotta delle Indie, prima, e poi verso il controllo delle immense risorse energetiche della regione…) è nuovamente fortemente collegato con l’Asia-Pacifico.

La costruzione geopolitica merkeliana, che avevamo descritto non solo nelle nostre Note, ed anche in un libro dedicato alla Cancelliera (‘Angela Merkel, Regina d’Europa’, per la Passigli Edizioni), è stata annientata dal combinato della campagna militare di aggressione russa contro l’Ucraina, delle guerre economiche imperialiste degli Stati Uniti contro Cina e Russia, dell’attacco terroristico al Nord Stream: essa era imperniata, tra l’altro, su una relazione liberale (quindi non coloniale o neo-coloniale) del mondo occidentale con la nuova realtà dei Paesi Emergenti, di cui l’Asia Pacifico è il centro di gravità. In altre occasioni cercheremo di spiegare, dal nostro punto di vista, quello che è accaduto alla costruzione merkeliana e quale è la sua effettiva eredità civile (coerentemente liberale). Oggi parleremo di Asia-Pacifico, della missione di Yellen a Pechino e di due democrazie emergenti, e parleremo pure della piccola Italia, della sua geopolitica domestica, ma sempre in chiave globale…
Grazie…..e, spero, Buona lettura.

NB: Una piccola osservazione decisamente marginale: in questi due drammatici anni abbiamo letto molte analisi di ‘super-specialisti’, commentatori, politologi sulle tragedie umane, umanitarie, politiche, geopolitiche, (Russia e Ucraina, Cina e Taiwan, ex Medio Oriente e Occidente), che si sono rivelate molto spesso piuttosto errate. Errori e sbagli, insegna la filosofia e la metodologia delle scienze, non solo sono nella natura umana, ma sono indispensabili per la crescita della conoscenza. Lo hanno argomentato da par loro K. Popper o I. Lakatos. Ma errori e sbagli devono essere riconosciuti con metodo e rigore; purtroppo è tutto il contrario di quello che hanno fatto e continuano a fare, troppo spesso, certi super-specialisti e dintorni. Il risultato è un gravissimo e crescente deficit intellettuale proprio nei paesi che, in teoria, dovrebbero essere all’avanguardia della libertà di espressione e di ricerca, il tutto con conseguenze pesantissime anche nell’ambito delle decisioni politiche e strategiche…

‘LA GRANDE TRASFORMAZIONE’. Yellen, novella Suslov, a Pechino

 

Michail Suslov, a lungo membro del Politburo del PCUS, il Partito comunista sovietico, era l’ideologo ufficiale del regime, l’ideologo di Breznev, l’interprete ufficiale dell’ortodossia più ortodossa del marxismo leninismo di regime.

Janet Yellen è l’attuale segretaria al tesoro degli Stati Uniti ed è stata presidente della FED, ‘la banca del mondo’. In questi giorni, si è recata per una lunga visita, una settimana, nella capitale cinese. Il primo tema sul tavolo sino-americano, ancora una volta, erano i rapporti molto stretti fra Pechino e Mosca (proprio in queste ore si è tenuto sempre a Pechino un incontro importante fra i ministri degli esteri della Repubblica Popolare e della Federazione Russa). In questo ambito, (come peraltro accade a Washington nelle relazioni riguardanti Mosca, anche con India, Arabia Saudita, Emirati, Turchia), il risultato è stato inesistente per Yellen. L’issue peraltro era scontata, l’esito delle peregrinazioni yelleniane pure. Ma ci sono altri due temi economici con forte impatto geopolitico, che erano sul tavolo sino-americano di questi giorni e che meritano di essere approfonditi.

Il primo è la ‘reflazione’ macroeconomica. Reflazione è la politica economica anti-ciclica che indica la risposta fiscale e monetaria molto espansiva ad una recessione, deflazione o rallentamento dell’economia. Vuol dire stimolo fiscale e/o monetario. Oggigiorno va molto di moda in particolare lo stimolo monetario, le politiche monetarie che un tempo si dicevano ‘non convenzionali’. Ovvero massicce immissioni di liquidità monetaria, per dare ossigeno ad una economia che fatica (e ad una finanza sempre più tossicodipendente dai QE). I QE sono lo strumento chiave di queste politiche monetarie iper-espansive. Il primo paese che le adottò in grande stile fu il Giappone alle prese con la ‘lunga deflazione’. Oggigiorno queste politiche sono diventate il cardine dell’azione delle Banche centrali occidentali che hanno letteralmente inondate le rispettive economie e l’economia globale di liquidità monetaria, (in particolare in dollari).

La segretaria al tesoro americana è andata a perorare in Cina la causa della reflazione. In altre parole Janet Yellen ha chiesto a Pechino di implementare un grande stimolo fiscale e monetario per l’economia cinese. Già da qualche mese banche di investimenti (americane), stampa finanziaria e non (americana), osservatori economici e politici (americani) scrivevano, dicevano, affermavano la necessità di politiche monetarie e fiscali fortemente espansive per Pechino per affrontare la ‘difficile situazione economica interna’. L’economia cinese rischia il ‘collasso’, dicevano, quindi serve – continuavano – un’azione forte di stimolo. Ciò, ricordiamo, di fronte ad una economia che comunque cresce di circa il 5 per cento. La Cina presenta segnali seri di crisi, la disoccupazione giovanile in testa o la situazione del settore immobiliare, ma con una crescita di quel genere è difficile parlare di recessione.

Comunque sia, la segretaria al tesoro americana ha perorato a Pechino l’idea di un rilevante stimolo reflazionistico per sorreggere l’economia cinese. Alcuni analisti sono critici al riguardo. ’Ciò che Yellen sta sostenendo – scrive ad esempio un osservatore di AsiaTimes – è una strategia che il Giappone ha perseguito per oltre 25 anni con un successo mediocre, agire sulle leve fiscali e monetarie, anno dopo anno, ha sostenuto il Più qua e là’. Ma niente di più. Quel periodo è infatti conosciuto nel Sol levante e nei manuali di scienza economica come i ‘decenni perduti’, espressione molto significativa. Senza riforme sul lato dell’offerta il Giappone non è andato da nessuna parte, a parte un esponenziale aumento del suo debito pubblico. Un debito pubblico tutto interno, come è ben noto, un debito pubblico sostenibile, almeno per ora. Un debito pubblico che però assorbe una fetta consistente del risparmio nazionale di quel grande paese. L’impatto di tutto ciò sul tasso di crescita è ben noto, ‘un successo mediocre’ appunto.

Peraltro è utile ricordare che Tokyo fu persuasa a quell’approccio proprio dagli americani negli anni novanta del precedente secolo. Dai segretari al tesoro di allora, Robert Rubin e Lawrence Summers. E dal ‘Plaza Agreement’, l’intesa monetaria fra dollaro e yen imposto da Washington ad una recalcitrante Tokyo che prima di allora guidava una vivace economia molto competitiva verso gli Usa.

Pechino non è Tokyo, non è dipendente strategicamente dagli Stati Uniti, ha ben altra ‘stazza’ economica e demografica, ha una base manifatturiera più imponente di quella già rilevante del Sol levante e una base di risparmio nazionale anch’essa imponente. E difatti Pechino ha detto no a Yellen anche sul fronte della reflazione. Politiche di reflazione nazionali, senza politiche dell’offerta (ovviamente sarebbe importante capire il tipo di politiche dell’offerta necessarie, ma questo è un’altro discorso…), hanno oggi un impatto relativamente limitato. E Pechino lo sa molto bene; e difatti da un lato vuole incrementare la domanda interna con aumenti dei salari, e dall’altro lato intende aprire ulteriormente l’economia a forze di mercato.

E poi, e qui c’è l’interessantissima novità pechinese, la Cina intende usare innovativamente la Banca centrale per dare liquidità molto mirata per l’innovazione e per le piccole-medie imprese tecnologiche. Non QE infiniti, ma liquidità ‘ad hoc’. Il settore tecnologico, dicono gli ultimi dati, starebbe sostituendo il settore immobiliare come grande motore dell’economia cinese. Le autorità di Pechino intendono sostenere adeguatamente questo processo. Se tutto va bene, cosa tutta da verificare, da un lato avremo il settore tecnologico al posto di quello immobiliare nel mercato interno; dall’altro lato avremo il Sud del mondo e il sud est asiatico al posto di Stati Uniti ed Europa nel mercato internazionale, come destinazioni principali dell’export della Repubblica Popolare: l’economia cinese in tal modo cambierebbe gli assi di sviluppo. Che dire? Vedremo. Per ora registriamo sia la capacità di innovazione cinese, nonostante un sistema politico non democratico (e qui uno studio della cultura politica cinese nei millenni sarebbe piuttosto utile) sia i No cinesi all’amministrazione Biden.

Ma poi c’è un secondo tema sul tavolo sino-americano di Yellen. La segretaria al tesoro americana, già presidente della FED, infatti ha parlato con gli interlocutori cinesi, e nelle ‘notizie’ fatte trapelare ai media americani o americano-centrici, della ‘sovra-capacità’ produttiva cinese che altererebbe i processi economici.

Queste analisi sono un po’ discutibili. La Cina è un paese ancora a medio reddito e con una enorme domanda insoddisfatta; a livello mondiale, ci sono grandi masse di popolazione indigente, senza servizi di base: in queste condizioni è verosimile un ‘eccesso di offerta’ in Cina e nel mondo? A livello mondiale, aggiungiamo, basterebbe leggere per qualche minuto, i rapporti (anzi bastano le sintesi…) di Oxfam o di altre agenzie internazionali, su povertà, miseria, analfabetismo, disuguaglianze globali, per avere contezza dell’esistenza, al contrario, di enormi buchi di domanda effettiva a livello complessivo. Si può parlare di ‘eccessi di offerta’ in queste condizioni a livello mondiale? In realtà ci sono grandi bisogni insoddisfatti e un potenziale enorme di domande ancora inespresse nel mondo (e nel continente Cina).

Ci sono certamente singoli importanti settori con sovra-capacità produttiva (il siderurgico, ad esempio), ma questa è quasi la norma nell’economia capitalista, però i problemi strutturali di fondo, oggi, sono altri. La domanda inespressa in primissimo luogo. E poi abbiamo piuttosto una situazione di cattiva allocazione di risorse, fattori e forze produttive. In Cina questo problema si presenta tipicamente come crescita contraddittoria (la crisi del settore immobiliare è forse il più grosso esempio); negli Stati Uniti e in Occidente, questo problema si presenta come una cattiva allocazione probabilmente figlia anche della enorme liquidità monetaria immessa dalle Banche centrali e nipote degli assetti monopolistici o di cartello di ampi settori economici. Dunque ci pare che abbiamo, oltre i problemi di domanda effettiva, anche una questione enorme di ‘mal-allocazione’.

Su tutto aleggia il tema degli ‘aiuti di stato’. Pechino dà grossi aiuti di stato alle sue imprese. Ciò è verissimo. Peraltro da decenni, gli stessi Stati Uniti danno ‘aiuti di stato’ sotto mentite spoglie, ad esempio, con il loro immane bilancio della difesa. Ed ora Washington lo fa anche con con gli stanziamenti imponenti dell’’Inflation Reduction Act’ ed altre misure varie (e lasciamo perdere il dumping fiscale o i dazi commerciali…). Tutti i paesi d’Occidente e d’Oriente in forma diversa danno ‘aiuti di stato’ ai rispettivi capitalismi. Da sempre, da quando è nato e cresciuto il capitalismo moderno industriale e finanziario. Gli ‘aiuti di stato’ sono un aspetto, solamente un aspetto, delle storture al mercato aperto; riguardano tutti i paesi ad economia capitalistica moderna. La questione, se mai, è se gli ‘aiuti di stato’ dei singoli casi funzionano in modo appropriato o meno, se sono transitori o diventano un regime economico ‘indipendente’ dalle forze di mercato. Ad esempio, tanto per porsi una domanda a caso ma importante oggigiorno, gli ‘aiuti di stato’ americani sotto forma di commesse e ‘investimenti’ del Pentagono davvero funzionano bene per l’economia?

Gli ‘aiuti di stato’, tutti gli ‘aiuti di stato’, dovrebbero essere regolamentati. Tutti, di qualsiasi tipo, e di tutti i paesi dovrebbero essere pacificamente regolamentati a livello globale, ovviamente per via negoziale (come è stato fatto con il regime WTO). E quindi non dovrebbero essere regolamentati solo quelli che sono temuti a Washington a causa (probabilmente) delle inefficienze del capitalismo nordamericano, (forse), coperte dal ruolo fin qui egemonico mondiale del dollaro. Ma, ripetiamo, gli ‘aiuti di stato’ sono solamente un aspetto della questione degli assetti di mercato, e non è detto che sia quello più rilevante.

Morale: i problemi centrali oggi, ci dispiace per alcuni commentatori anche domestici, non sono semplicisticamente gli ‘aiuti di stato’’ di un solo paese: di fronte ai tantissimi bisogni insoddisfatti e alla enorme domanda inespressa a livello mondiale, parlare di problema sistemico di ‘sovra-capacità’, aiuti di stato o non aiuti di stato, per responsabilità cinese (o di chiunque altro) appare, quanto meno, discutibile.

L’economia capitalista mondiale abbisogna piuttosto di forte espansione a livello di domanda, ad esempio facendo entrare nel mercato le masse del Sud del mondo; e, ovviamente, abbisogna di forte concorrenza a livello di offerta, ad esempio facendo cadere i cartelli parassitari, in primo luogo il Grande cartello della Finanza made in Usa, controllando/regolando con intelligenza la immensa liquidità monetaria immessa dalle Banche centrali dell’Occidente (FED in particolare!!) in questi ultimi anni, almeno dalla crisi Lehman in poi e infine regolamentando per via negoziale gli ‘aiuti di stato’ di tutti i paesi, Stati Uniti per primi (una domanda ancora: il ‘privilegio esorbitante’ degli Usa con il dollaro è anch’esso o no un ‘aiuto di stato’ ma di carattere imperiale?).

I cartelli del capitalismo ‘monopolistico’ spessissimo sono protetti e garantiti in tutti i paesi, (questi si), dal cattivo intervento statale. Un esempio piccolo piccolo? Le ‘Big Tech’ americane sono protette dal governo americano dalla concorrenza globale cercando di far fuori i loro concorrenti esteri. Ricordiamo poi che su tutto aleggia il tema della liquidità monetaria non convenzionale delle Banche centrali occidentali, una liquidità non destinata ad investimenti.

La via dell’allargamento dell’economia e del mercato è da sempre quella seguita dai capitalismi aperti, fin dall’epoca delle Repubbliche marinare, per superare crisi e contraddizioni per crescere (come ha insegnato anche un economista italiano, Giovanni Arrighi). L’Asia, la Cina, ma specialmente il Giappone, la Corea del sud, Taiwan, Singapore, Asean sono oggi su questa strada con il loro contraddittorio e spesso discutibile ‘capitalismo sviluppista’ o ‘neo-sviluppista’: il tema da quelle parti è allargare capitale e mercato con la Via della seta (cinese), con i grandi corridoi energetici e infrastrutturali (giapponesi e indiani), o con le ristrutturazioni dei debiti facendo pagare in primo luogo gli investitori finanziari.

Gli Stati Uniti, invece con i discorsi della Yellen (o di Jack Sullivan) puntano alla ‘restrizione’ dell’economia mondiale, con l’esclusione delle masse dell’ex Terzo mondo dal cuore del mercato e del capitalismo globale. I discorsi di Yellen e Sullivan sono una interpretazione reazionaria, che sembra parente stretta, guarda caso, della teoria ultra-dogmatica di matrice marxista leninista, alla M. Suslov, per essere semplicistici (ovviamente i neo-marxisti critici sono tutt’altra cosa): le crisi del capitalismo, quindi anche la crisi dell’economia mondiale oggi, sarebbero situazioni irrisolvibili di sovra-produzione (o sovra-capacità, che dir si voglia) se non con la guerra. Eppure un certo J.M.Keynes, grande economista liberale, se ricordiamo bene, spiegò che le crisi di allora come situazioni di sottoconsumo, causate da disuguaglianze dei redditi e dei comportamenti economici. Esse erano risolvibili con adeguate politiche economiche, (non con le guerre). Le politiche che necessitano oggi possono essere, in parte, diverse da quelle di ieri, ma la logica è la stessa: non era Henry Ford che produceva allora troppe auto a prezzo decente, ma era l’economia troppo ristretta a causa dei salari operai troppo bassi. Oggi non è la Cina che produce troppe auto o pannelli solari, è l’economia di certi paesi e a livello mondiale che non funziona perché molte popolazioni non hanno redditi sufficienti e stabili e perché l’allocazione è distorta dai cartelli.

Insomma abbiamo la Michail Suslov d’America, da un lato, l’’Adam Smith a Pechino’ (è il titolo di un saggio di Giovanni Arrighi), o a Tokyo, a Singapore, a Taipei (il ruolo delle democrazie emergenti e delle democrazie est-asiatiche è fondamentale), dall’altro lato. Il ‘conflitto globale’ può essere compreso meglio decrittando non solo la sua dimensione ‘geopolitica’ ma anche la sua dimensione economica: l’Asia è il centro del ‘capitalismo sviluppista’, gli Stati Uniti sono il cuore, per ora, del ‘capitalismo oligarchico’, o meglio, per dirla con un grande scrittore di fantascienza, (ricordate ‘1984’?), del ‘collettivismo oligarchico’. Con una correzione, però, secondo il nostro giudizio: le forze ‘sviluppiste’ (o ‘sociali di mercato’ in Occidente) e le forze ‘oligarchiche’ sono in realtà presenti in tutti i paesi, e in tutte le economie. Lo scontro, cioè, non è fra Usa e Cina (se mai è fra diversi tipi di ‘ordini geopolitici globali’) ma fra ‘collettivismo oligarchico’ (altri lo definiscono ‘tecno-feudalesimo’ o ‘socialismo dei ricchi’) e ‘capitalismo sviluppista’ e/o ‘sociale di mercato’ nell’economia e nella politica globale, e nelle singole economie e società nazionali.

Ci sia consentito, a questo punto però, un breve e sommario ragionamento liberale. Esistono tante forme di capitalismo, ieri come oggi. In Occidente e nel mondo. Esistono i capitalismi asiatici ed est-asiatici in particolare (quelli ‘sviluppisti’ o ‘neo-sviluppisti’), ma esistono anche diversi capitalismi occidentali: quello iper-finanziarizzato e militarizzato dell’America di oggi (l’America figlia del New Deal era una cosa molto diversa); o quello ‘sociale di mercato’ di tipo renano; o ancora quello iper-familiare e dei distretti alla mediterranea. La forma ‘oligarchica’ oggi si presenta in particolare nel capitalismo iper-finanziarizzato dove domina una novella rendita di una ‘merce prodotta’ dallo stato in monopolio, la moneta. Ma l’Occidente (e ancora di più il liberalismo) non sono semplicisticamente quel capitalismo iper-finanziarizzato, militarizzato, monopolistico e alla fin fine ‘di regime’ o ‘di parastato’. L’Occidente liberale è il libero mercato dei Richard Cobden, il liberalismo sociale di John Hobson, l’ordo-liberalismo della scuola di Friburgo.

Il problema non è la ‘sovra-capacità’ di offerta cinese, ma dal punto di vista liberale-classico, come abbiamo accennato prima, è in primo luogo, la estrema debolezza del mercato aperto, delle istituzioni del mercato aperto, nel capitalismo a guida americana di oggi. Ciò determina una pessima allocazione di risorse, fattori, forze economiche. E quindi produce bassa competitività rispetto anche al capitalismo cinese e i suoi elementi di stato. Ciò è ampiamente confermato dal fatto che, quando Washington decise i dazi anti-cinesi, gli Stati Uniti non diminuirono le importazioni ma semplicemente le aumentarono dai paesi Asean. Ed allora il problema sta nella ‘sovra-capacità’ cinese o nella ‘mal-allocazione’ del capitalismo di parastato e monopolistico americano? L’alternativa occidentale (non asiatica) a questo stato di cose esiste: è il modello ‘sociale di mercato’, renano e ordoliberale, che infatti era caratterizzato da elevata competitività persino nei confronti della Cina. Ciò almeno fino a quando quel capitalismo poteva contare su forniture di fonti energetiche a basso prezzo e stabili nel tempo. E fino a quando ‘qualcuno’ non ha deciso che le logiche della ‘sicurezza’ dovevano prevalere nettamente su quelle dell’economia (vi ricordate il discorso di Jack Sullivan alla Hopkins University?). A Washington sono proprio sicuri che le logiche della ‘sicurezza’ senza una base di economia capitalistica sana, ma fondate su un enorme debito e su protezionismi unilaterali, possano prevalere? Sono proprio sicuri che una sicurezza forte non sia figlia di una economia sana, robusta, competitiva? Sono proprio sicuri che, con la loro interpretazione, Biden e Sullivan non stiano conducendo gli Stati Uniti del glorioso New Deal e della immaginifica Nuova Frontiera, e tutto l’Occidente nell’abisso neo-weimariano? Sullivan aveva giustificato questo approccio con la necessità di difendere la ‘classe media americana’. Ed allora, dopo 4 anni di questa politica, come mai quella classe media non ne può più di Biden e potrebbe addirittura preferire un redivivo Trump? L’incubo di Weimar incombe.

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