La “Grande Asia” fra BRICS e RCEP: il ruolo delle “democrazie orientali”…
La ‘Grande Asia’ veleggia tra BRICS e RCEP. Con la presenza molto importante delle ‘democrazie orientali’, attori protagonisti del ‘mondo novo’. I Brics non abbisognano di presentazione: sono l’insieme dei più importanti paesi ed economie ‘emergenti’, un insieme dove Cina e Russia hanno in posto importante. L’RCEP ormai è ben conosciuto dai nostri lettori: è l’’Accordo di partnership economico regionale’ asiatico, ‘guidato’ dalle economie cinese e giapponese. La ‘Grande Asia’ è la regione dell’’Asia major’, East Asia, sud est asiatico e subcontinente indiano più la Federazione Russa, sempre più componente a pieno titolo del mondo asiatico.

LE DEMOCRAZIE ORIENTALI
La ‘democrazie orientali’, invece, sono un insieme piuttosto composito di paesi governati da regimi democratici pluralistici, molto differenti fra di loro. Come peraltro è anche il gruppo delle cd ‘democrazie occidentali’. Le democrazie d’Oriente infatti comprendono le democrazie capitalistiche avanzate (di rito confacciano) dell’EastAsia, le democrazie pluralistiche emergenti del sud est asiatico, la democrazia indiana, la più grande e popolosa del pianeta e le sue consorelle difficili del subcontinente, dal Nepal allo Sri Lanka. Un insieme quindi alquanto composito che sarebbe più corretto definire come le ‘democrazie asiatiche’; come peraltro le democrazie occidentali, (ricomprendenti quelle scandinave, quelle euro-occidentali continentali, quelle anglosassoni e così via) sarebbe più corretto chiamarle ‘democrazie nord-atlantiche’.
Come dicevamo, le ‘democrazie orientali’ hanno sempre di più un ruolo protagonista. Per capirlo guardiamo assieme i processi di integrazione geopolitica, come i BRICS; e quelli di integrazione capitalistica, come l’RCEP (e non solo).
INDIA E INDONESIA
Le due più importanti e rilevanti democrazie pluralistiche emergenti d’Asia, India e Indonesia, fanno parte dei BRICS. L’India non richiede precisazioni: è la più forte economia emergente che segue la grande economia emersa, la Cina; è una grande democrazia fin dalla sua indipendenza dall’Impero britannico. E ciò grazie sia alla sua storia ‘pluralistica’ (Amartya Sen, grande economista liberale, lo ha spiegato molto berne) sia al ruolo democratico fondativo di due grandissimi personaggi, il Mahatma M. Gandhi e il primo ministro J. Nerhu, socialista e democratico di ferro.
L’Indonesia costituisce invece un caso molto meno conosciuto: è l’erede delle Indie orientali olandesi, il ‘gioiello’ dello sfruttamento coloniale dei Paesi Bassi. Il nazionalismo indonesiano ebbe la sua accelerazione a cavallo della seconda guerra mondiale. L’Indonesia fu il luogo della fondamentale conferenza di Bandung, momento di nascita del Movimento dei Non allineati, i precursori storici dei BRICS. Fu anche la nazione vittima di un immane e tragico genocidio, quello anticomunista dell’inizio degli anni Sessanta. Quello definito il ‘metodo Giacarta’ in un bellissimo libro uscito anche nel nostro paese. L’Indonesia è un immenso paese-arcipelago composto da migliaia e migliaia di isole, con Giava al centro; è la più popolosa nazione musulmana del mondo, dove peraltro convivono Islam, induismo, cristianesimo, religioni animiste, mondo confuciano. Dalla crisi finanziaria asiatica che fece crollare il regime autoritario di Suharto, è nata una democrazia pluralista che si è dimostrata molto più solida di quanto avevo previsto pressoché tutti gli osservatori. Con innumerevoli difetti e contraddizioni. L’Indonesia, con il nuovo presidente Prabowo Subianto, è diventata membro a tutti gli effetti dei BRICS. L’India come è noto ne fra parte fin dalla fondazione del gruppo.
COREA DEL SUD E GIAPPONE
India e Indonesia dunque fanno parte dei BRICS, a conferma di un ruolo significativo delle democrazie orientali in tutta la faccenda. Ma c’è dell’altro, se guardiamo assieme integrazione geopolitica e integrazione capitalistica del sistema pan-asiatico: le più importanti democrazie capitalistiche avanzate dell’East Asia, ovvero Corea del Sud e Giappone, fanno parte dell’RCEP a pieno titolo. E’ qui interessante annotare che in entrambi i paesi siano in corso evoluzioni politiche importanti. La Corea del Sud vive la stagione del defenestramento, per il tentato e fallito golpe, del presidente conservatore e proUsa; il più probabile successore dovrebbe essere il leader del ‘Democratic Party of Korea’, l’opposizione liberale, critico verso gli Stati Uniti e aperto alla cooperazione con la Cina e al dialogo con il regime nordcoreano.
In Giappone invece è giunta l’instabilità politica dopo le recentissime elezioni che, pur confermando la maggioranza relativa alla formazione dominante, il Partito liberal-democratico, conservatore di centro-destra, hanno lasciato la storica coalizione PLD-Komeito senza la maggioranza assoluta alla Camera dei rappresentanti, la Camera bassa della Dieta di Tokyo. Imponendo quindi inusuali formule politiche per l’Impero del sol levante. È molto interessante notare come il nuovo primo ministro giapponese, Yoshida, veleggi fra il nuovo dialogo con Pechino e l’incremento rilevante delle spese per la difesa. Mentre si prepara all’incontro con il nuovo presidente americano, D. Trump e la sua aggressiva politica commerciale. Proprio questa politica commerciale, unita all’adesione all’’Accordo economico regionale’ asiatico, secondo autorevoli osservatori, spingerà il Giappone ad intese non solo economiche con la Cina. Le contraddizioni anche qui sono molte, ma i processi di integrazione capitalistica nella regione sono potenti.
La Malaysia, assieme a Singapore, peraltro uno stato ex malese, staccatosi dalla federazione appena costituita, al di là delle indubbie risorse naturali, è caratterizzata dal controllo della rotta marittima più importante del mondo, gli stretti della Malacca…
IL CPTPP O ACCORDO TRANSPACIFICO
E il Giappone ha un ruolo enorme, potenzialmente, in essi. In particolare se allunghiamo lo sguardo all’altro grande accordo economico del Pacifico, di cui abbiamo parlato spesso, il CPTPP, ‘La Partnership Transpacifica’, accordo abbandonato dagli Stati Uniti dopo che proprio Washington ne era stato promotore, ma proseguito dai governi giapponesi (e non solo). Cina e Taiwan hanno chiesto l’adesione al CPTPP. Sarebbe un fatto decisamente storico.
Il CPTPP è un accordo commerciale di nuova generazione: poiché non prevede semplicemente l’abolizione di dazi e tariffe, ma anche l’adozione di standard e regole economiche molto impegnative. Costituisce cioè il fulcro di un processo di integrazione sia capitalistico sia geopolitico. E perciò stesso costituisce un fatto di enorme portata se Cina e Taiwan con tempi da definire vi aderissero. Nascerebbe lo spazio capitalistico potenzialmente neo-egemone nel mondo globale, o meglio ‘neo-globale’. Con il Giappone, ovvero le democrazie orientali al centro!
Come abbiamo cercato di descrivere le ‘democrazie orientali’, India e Indonesia da un lato, Giappone e Corea del Sud dall’altro lato, sono attori importanti rispettivamente dei BRICS e dell’RCEP e la Cina potrebbe diventare con tempi tutti da chiarire attore importante anche del CPTPP.
Se guardiamo assieme a questi processi ne possiamo ricavare un paio di annotazioni. Uno, BRICS-RCEP-CPTPP interagendo, con Cina, India, Giappone al centro, sono un potenziale rilevante per un mondo ‘neo-globale’. India e Giappone, grandi democrazie asiatiche; la Cina governa da un Partito stato. Ovviamente non si possono nascondere le contraddizioni esistenti, basti pensare ai problemi fra India e Cina, e ancora più alle relazioni del Giappone oggi con la Russia (recentemente comunque il primo ministro giapponese ha espresso l’aspettativa di concludere presto il Trattato di pace Mosca-Tokyo: la seconda guerra mondiale fra i due paesi non ha formalmente ancora visto il trattato di pace) e con la stessa Cina. Ma le potenzialità non devono sfuggire ad osservatori accorti.
IL CATALIZZATORE: L’ASEAN
Anche perché vi è una forza catalizzatrice dell’integrazione geopolitica e capitalistica della Grande Asia: l’ASEAN, ovvero l’Associazione delle nazioni del sud est asiatico. L’ASEAN nacque sulle ceneri disperse della Nato asiatica, la SEATO, uscita distrutta dalla sconfitta americana nella guerra del Vietnam. L’ASEAN la sostituì come associazione dei regimi anti-comunisti della regione. Ma dopo la crisi finanziaria asiatica entrarono nell’organizzazione anche i paesi governati da Partiti stato ‘comunisti riformatori’, Vietnam e Laos.
Oggi l’ASEAN riunisce paesi dai regimi politici più diversi, democrazie pluralistiche, come Indonesia, Malesia, Singapore; paesi dalla democrazia molto difficile, come Thailandia e Filippine; paesi retti da Partiti stato come abbiamo detto; un paese retto da governo militare in piena guerra civile, il Myanmar. Ovviamente per tenere assieme un raggruppamento di paesi così vario, serve un enorme pragmatismo politico e un rilevante capacità diplomatica. Fattori che evidentemente abbondano a quelle latitudini. E che stanno consentendo all’ASEAN di avere quel ruolo di cerniera del ‘mondo novo’ al quale avrebbe dovuto candidarsi l’Unione europea, una UE accorta nei rapporti con il Sud e l’Est del Mondo, una UE non forzosamente allineata agli Stati Uniti. Così non è stato, e così il ruolo di ponte e cerniera è stato preso, per ora, proprio dall’ASEAN.
Due, le democrazie orientali, e peraltro tutte le grandi democrazie del mondo (Usa esclusi ovviamente) non costituiscono un mero terreno di battaglia fra ‘Occidente’ e ‘Resto del mondo’, come intendono, convergendo, politologi e osservatori putiniani e politologi e specialisti atlantisti. Un terreno definito ‘Sud globale’.
No, le democrazie orientali, in particolare, sono protagoniste decisive del ‘Sud+Est del mondo’ al pari di Cina e Russia, grandi nazioni rette invece da governi semi-autoritari o da sistemi politici a Partito stato. Il non capirlo appieno costituisce uno dei più gravi difetti della cultura politica dell’’Impero’. E uno dei più gravi ostacoli alla definizione di una Grande strategia adeguata. Proprio il ruolo di queste democrazie nei processi BRICS-RCEP-CPTPP è un segnale di questa rilevanza.
SINGAPORE-MALESIA, ZONA SPECIALE
L’ASEAN in particolare. Per capire ancora meglio ricordiamo una notizia dello scorso gennaio 2025, il 7 gennaio. Lawrence Wong, primo ministro di Singapore e Anwar Ibrahim, primo ministro della Malaysia (una figura interessantissima da studiare molto), hanno annunciato la creazione della Zona Speciale Singapore-Johor. ‘E’ un progetto importante che si baserà sui punti di forza complementari di Singapore e Johor (lo stato malese vicinissimo all’isola di Singapore,NB), in modo che entrambi possiamo essere più competitivi’, ha commentato nella conferenza stampa di presentazione Anwar. La SEZ, che ripercorre la politica delle Zone economiche speciali delle riforme denghiste in Cina, la storia di Shenzhen, per capirci, combinerà la capacità finanziarie e tecnologiche di Singapore, la terra abbondante, il lavoro, le risorse naturali di Johor. Puntando anche sulle filiere dei semiconduttori. Ambito nel quale Singapore vuole diventare fortissimo e nel quale uno stato della federazione della Malaysia, lo stato di Penang, è già molto presente.
Ma cosa hanno in comune Singapore, Penang, Taiwan, i tre punti nevralgici del capitalismo globale dei chip (Cina a parte e a parte la Corea del Sud, ovviamente?). Guarda caso, sono tutte e tre, stati del mondo cinese. Singapore è una città stato a larga maggioranza cinese, i cinesi d’oltremare, centro di incontro e fusione fra la cultura cinese della costa e la cultura europea dell’Inghilterra; Taiwan è la Repubblica di Cina, che Pechino, e la politica della ‘one China’, ritengono parte integrante della Cina; Penang, guarda il caso, è lo stato a maggioranza cinese della Federazione della Malaysia. E Anwar Ibrahim è di casa a Pechino. E non solo a Pechino.
LA MALAYSIA DI ANWAR
A questo punto dedichiamo un secondo al ruolo della Malaysia. La Malaysia è un paese molto interessante e dal 1° gennaio di quest’anno ha assunto la presidenza a rotazione dell’ASEAN. La Malaysia è una democrazia pluralista emergente asiatica, anzi è la tipica democrazia del sud est asiatico.
Ma, molto importante, la Malaysia riunisce una serie di regni, sultanati locali ex protettorati dell’impero britannico: gli ‘Stabilimenti degli stretti’, Malacca, Penang, Singapore per l’appunto. La Malaysia, assieme a Singapore, peraltro uno stato ex malese, staccatosi dalla federazione appena costituita, al di là delle indubbie risorse naturali, è caratterizzata dal controllo della rotta marittima più importante del mondo, gli stretti della Malacca, un budello di mare strettissimo per quanto concerne il passaggio di superpetroliere e superportacontaneirs, attraverso il quale passano le forniture di energia per l’East Asia e una parte cospicua dei manufatti prodotti da quelle economie per l’Occidente. Una rotta vitale per il commercio globale. Una rotta importantissima per Cina, Corea, Giappone. Un tempo passaggio decisivo della storica ‘via delle spezie’, oggi uno dei punti più sensibili, anzi il punto più sensibile in un eventuale confronto militare fra Stati Uniti er Cina (ancora più probabilmente della stessa Taiwan).
Per questo motivo, gli inglesi nell’espansione coloniale verso Oriente, si impossessarono del controllo di quei piccoli sultanati degli stretti che ora costituiscono la federazione della Malaysia, guidati, gli inglesi da uno dei grandi protagonisti della costruzione dell’Impero, quel Stafford Raffles ricordato da palazzi, alberghi, luoghi in tutta Singapore e negli ex stabilimenti.
La Malaysia oggi è costituita da quei sultanati della Malesia peninsulare (essa è una monarchia a rotazione, ogni sultano ruota periodicamente come Capo dello Stato) con in più due territori ricchi di risorse naturali del Borneo: il Borneo settentrionale, o Sabah; e il Sarawak, il territorio tanto per intenderci dei Rajah bianchi della famiglia Brooke, fatti conoscere a livello mondiale da Emilio Salgari (le Tigri di Mompracem, la Perla di Labuan), ma che peraltro sono personaggi storicamente esistiti. Sabah e Sarawak costituiscono l’altra Malesia.
Oggi infatti la Malaysia è una democrazia pluralista emergente, caratterizzata da un forte pluralismo etnico-religioso. Tre comunità o etnie la contraddistinguono: i Malay, di religione musulmana, l’etnia maggioritaria; i cinesi, confunciani e taoisti, che sono di fatto la comunità degli affari e dei commerci del paese (lo sono una po’ in tutto il sud est asiatico, dalla Thailandia alla vicina Indonesia); gli indiani tamil, induisti, ’importati’ dagli inglesi durante il governo coloniale per lavorare nelle piantagioni malesi e ivi rimasti dopo l’indipendenza del paese. Il conflitto e la rappresentanza delle tre etnie ha scandito tutta la storia della federazione. Non la facciamo lunga: la comunità cinese controllava (e controlla in parte tuttora) l’economia del paese. I malay però erano, e sono la maggioranza dei cittadini. Ovviamente ciò ha reso indispensabile una politica di affermazione sociale del ruolo e della posizione dei malay, per averne il voto e la rappresentanza. L’UMNO, il partito dell’’Organizzazione malay unita’, si è assunto questa funzione: diventando in tal modo fino al 2018 il partito predominante del locale sistema politico. Alla guida non solo del governo e degli apparati statali, ma anche di una coalizione multipartitica, il Fronte Nazionale, che comprendeva formazioni politiche di tutte le etnie e religioni del paese. Nelle elezioni federali del 2018, infatti, per la prima volta nella storia del paese, il Fronte Nazionale perse la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento locale.
Per consentire un maggior ruolo economico e sociale dei malay, ovvero per favorire la nascita e l’affermazione di una nuova borghesi malay a fianco di quella tradizionale cinese, fu implementata la cosiddetta N.E.M., il ‘Nuovo Meccanismo economico’. Che funzionò: dopo tre decenni, la borghesia malay fu una realtà importante e la Malaysia aveva di fatto sconfitto la povertà. La ‘DC malese’, di fatto l’UMNO può essere considerata in tal senso, aveva vinto storicamente. Ma proprio la sua vittoria determinò la crisi: rigidità nei processi economici, corruzione e assistenzialismo. Prima Mahatir Mohamed, il più longevo primo ministro del paese, un personaggio molto controverso ma molto interessante, e poi il suo ex ministro delle finanze, diventato nel 2022, primo ministro, cercarono con varie riforme e con forti programmi di investimento e di infrastrutture di superare quelle contraddizioni.
Ma non fecero solo questo (lasciamo qui da parte la lunga e travagliata storia politico giudiziaria di Anwar Ibrahim e l’interessantissima storia politico-sociale della Malaysia): Mahatir e Anwar hanno cercato di dare alla Malaysia un importante status geopolitico. Mahatir fu il propagandista dei ‘valori asiatici’ in qualche modo contrapposti ai valori occidentali. Lo stesso Mahatir riuscì a mettere assieme il Summit dell’East Asia che, dal 2005, vede assieme i paesi dell’ASEAN più gli altri paesi asiatici.
Insomma la Malaysia ha assunto un ruolo significativo e peculiare nella politica e geopolitica asiatica. Non da ora: un po’ come l’Italia con Aldo Moro, Amintore Fanfani, Bettino Craxi. Quindi non deve meravigliare l’approccio geopolitico della Malaysia di oggi e del primo ministro Anwar. Il 7 novembre scorso Anwar è stato ospite con il tappeto rosso del presidente cinese Xi Jinping. ‘Cina e Malaysia sono buoni vicini e buoni amici’ ha sottolineato il leader cinese. A settembre era stato ospite protagonista del Forum del Far East russo a Vladivostock assieme al presidente russo V. Putin. Con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione la partnership fra Malaysia e Federazione Russa. Sempre a settembre, il primo ministro malese era stato ospite del primo ministro indiano, Narendra Modi, in una storica visita che aveva avvicinato notevolmente Kuala Lumpur e Delhi. Cina, Russia, India insomma: la Malaysia infatti non a caso è diventato partner dei BRICS Plus.
Vertici dell’East Asia, presidenza dell’ASEAN, partner dei BRICS Plus: l’approccio di Kuala Lumpur, vecchio alleato anticomunista della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, nonché attore fondamentale per il controllo degli Stretti della Malacca, è chiaro. E a Davos, pochissimi giorni or sono (il 28 gennaio), Anwar aveva confermato questo approccio, ‘sottolineando l’importanza di migliorare le relazioni con la Cina, nonostante le controversie marittime riguardanti il mar cinese meridionale, ‘La Malesia non va in guerra o minaccia’ ha detto il premier malese. Morale: la Malaysia, tipica democrazia del sud est asiatico, una ‘democrazia orientale’, ha approcci e implementa politiche pragmatiche e orientate allo sviluppo.
Proprio per questo, le democrazie orientali-asiatiche hanno un potenziale ruolo decisivo per organizzare il cd ‘multipolarismo’ ma in senso più avanzato: Malaysia, Indonesia, India, Singapore, e in futuro chissà, Giappone e Corea del Sud.
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