Libero commercio in salsa est-asiatica
Nonostante tutto, i processi nel libero scambio e di integrazione capitalistica proseguono in Asia orientale. Nonostante le forti pressioni di attori esterni alla regione economica più dinamica del pianeta. Nonostante le logiche ‘di sicurezza nazionale’. Nonostante i rischi di crisi regionali, peraltro per ora, in qualche modo sotto controllo, grazie anche a società civili aperte e robuste, come in Corea del Sud o Taiwan, Malesia o Singapore.
Due sono le notizie o dichiarazioni che in queste ore meglio chiariscono questa salute del libero commercio in salsa est-asiatica.

L'INCONTRO CINA-COREA DEL SUD
La prima riguarda la nazione al centro in queste settimane di una gravissima crisi politica, la Corea del Sud, a rischio colpo di stato per il tentativo senza successo, dell’attuale presidente conservatore di proclamare la legge marziale. Il presidente è ora formalmente sotto procedura di impeachment ma il clima politico a Seul rimane fortemente polarizzato. E il blocco conservatore al potere (che però non ha la maggioranza in Parlamento, ovvero nell’Assemblea nazionale), è verticalmente spaccato dalla questione del dimissionamento o meno del presidente sotto accusa.
Bene, proprio immediatamente dopo il 3 dicembre, il giorno delle 6 ore che sconvolsero Seul, il 9 dicembre per la precisione, il ministro del commercio sudcoreano ha incontrato il viceministro cinese per il commercio a Seul. Tema dell’incontro, fare il punto sullo stato di attuazione dell’Accordo di commercio bilaterale Cina-Corea del sud.
L’attivazione dell’accordo pare ottima, nonostante le continue pressioni americane anche su Seul, a favore di una rottura di alcune delicate catene del valore tecnologiche. Anzi questa attuazione pare talmente positiva che gli esponenti dei due governi hanno concordato di andare avanti, e di negoziare per l’estensione dell’accordo agli investimenti e ai servizi. È molto importante annotare che sia la Cina sia la Corea del Sud aderiscono all’RCEP, l’Accordo di partnership economico regionale asiatico, ed entrambi non aderiscono per ora al CPTPP; L’accordo di partnership transpacifico guidato oggi dal Giappone. L’accordo bilaterale quindi assume una particolare importanza, economica ma anche politica e geopolitica, non questo contesto. ‘I negoziati mostrano – approfitta di scrivere il Global Times di Pechino tutto soddisfatto – la crescente attenzione della Corea del Sud alla cooperazione economica fra Cina e Seul’. Non solo: secondo il giornale ufficioso di Pechino, la Corea del Sud si starebbe ‘spostando verso un approccio più reciprocamente vantaggioso’. In poche parole, Seul sarebbe ora meno favorevole a politiche di contenimento anticinese ‘made in Usa’. Un caso?
LA CINA E IL CPTPP
Ma le notizie riguardanti l’integrazione capitalistica dell’Asia Pacifico non si fermano all’attuazione dell’Accordo di commercio bilaterale sino-sudcoreano né alla possibile nuova tendenza più pragmatica di Seul. Come abbiamo accennato prima, nell’Asia Pacifico predominano due grandi accordi di libero commercio e di apertura economica.
Uno è l’RCEP, l’Accordo economico regionale guidato sostanzialmente dalla Cina. È stato firmato al latere del vertice ASEAN del 15 settembre 2020 a Vientiane. Ricomprende Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda (si avete letto bene: parliamo di Canberra e Wellington, due alleati strategici anglosassoni degli Stati Uniti nel Pacifico, proprio loro) più tutti i dieci paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle nazioni del sud est asiatico. È entrato formalmente in vigore il 1 gennaio 2022, dopo la ratifica delle assemblee legislative dei paesi firmatari, dunque anche delle Camere dei rappresentanti australiana e neozelandese. Le economie RCEP costituiscono circa il 30 per cento del Pil mondiale, calcolato ai valori di cambio; se il calcolo fosse effettuato a ‘parità di potere d’acquisto’, (un tipo di calcolo del Pil che, se è dis-allineato a lungo con quello più usato, probabilmente fornisce informazioni migliori sul volume delle rispettive economie), le economie RCEP costituiscono una quota ben maggiore del Pil mondiale.
L’altro grande accordo è il CPTPP, figlio del T’rattato Transpacifico’-TPP, fortemente voluto dall’amministrazione Obama, poichè avrebbe dovuto costituire il braccio economico del ‘Pivot to Asia’ di Kurt Campbell, (il braccio politico militare avrebbe dovuto essere il QUAD). Come si sa, però, l’amministrazione Trump fece uscire gli Stati Unti da quell’accordo. Quell’uscita fu il primo atto formale internazionale del Trump presidente. Undici paesi dell’Asia orientale e del Pacifico, sotto la guida del Giappone, decisero di proseguire sulla strada del libero commercio e dell’integrazione capitalistica (il TPP e il CPTPP sono accordi commerciale molti ‘avanzati’, non semplici accordi di eliminazioni di dazi e tariffe), e così nacque il CPTPP, l’’Accordo comprensivo di partnership transpacifico’. Senza gli Stati Uniti, acquisendo quindi un significato geopolitico potenzialmente diversissimo da quello del ‘Pivot to Asia’.
E difatti, non a caso, nel 2021, la Cina che doveva essere la economia da contenere nella ‘logica’ campbelliana, ha richiesto formalmente l’adesione all’accordo. Quella scelta di uscire dal TPP di Donald Trump (guarda caso pienamente confermata dall’amministrazione ‘democratica’ di Joe Biden) costituisce un passaggio storico fondamentale per capire le dinamiche reali dell’’Impero’ americano.
LE ``DIFFICOLTÀ`` AMERICANE
Gli Stati Uniti non erano, e non sono in grado, di sostenere politicamente, socialmente, economicamente, un ordine globale di libero commercio. Che è diventato fortemente punitivo per la classi lavoratrici e medie americane: questa è precisamente una delle grandi ragioni delle vittorie di Donald Trump. Ovviamente gli Stati Uniti potevano rispondere a quell’insostenibilità strutturale da parte loro o non forti riforme economiche e sociali interne e quindi con un rafforzamento capitalistico nazionale (ciò richiedeva ovviamente una grande leadership politica) o cercando di imporre al mondo, o almeno a quel pezzo di mondo che costruisce (ancora oggi, per il futuro si vedrà) un ‘sistema geopolitico’ dei paesi ‘alleati’, una ‘logica di sicurezza nazionale’ anti-libero commercio. Ovviamente è del tutto evidente la linea che ha prevalso.
Alla luce di tutto ciò diventa importantissima la richiesta di adesione cinese al CPTPP. Secondo un autorevole (e indipendente) think tank americano, il ‘Peterson Institute’, ‘la membership cinese del CPTPP, porterebbe larghi benefici sia alla Cina che agli altri membri’. Benefici che lo studio cerca anche di quantificare: ‘nella sua forma corrente – scrive – il CPTPP porterebbe benefici stimati per 147 miliardi di dollari all’anno; ma se la Cina si unisse, quei benefici quadruplicherebbero a 632 miliardi di dollari’. E aumenterebbero alla cifra di 1 trilione e 225 miliardi di dollari annui, se oltre la Cina, aderissero al CPTPP gli altri richiedenti, Taiwan, Thailandia, Corea del Sud, Filippine, Indonesia.
E L'``OPPORTUNITÀ`` CINESE
Dato che il CPTPP è un accordo dalle regole molto importanti, per la Cina questa adesione comporterebbe un enorme sforzo di ulteriore modernizzazione capitalistica. Lo studio del Peterson enuncia con chiarezza ed autorevolezza le modernizzazioni che Pechino dovrebbe compiere: la Cina dovrebbe fare uno sforzo senza precedenti. Forse ancora più consistente delle modernizzazioni dentiste. Insomma la faccenda è importantissima dal punto di vista sia politico e geopolitico che economico e capitalistico.
Per queste ragioni è molto interessante che il solito Global Times abbia colto l’occasione dell’avvenuta adesione al CPTPP della Gran Bretagna per ribadire la volontà nei Pechino per il processo verso il CPTPP nonostante, o forse proprio grazie, ai cambiamenti indispensabili per Pechino. Basti pensare, tanto per capirci, che per aderire la Cina deve rendere molto più trasparenti le sue enormi e importantissime aziende di stato.
‘La Cina è fortemente impegnata – scrive il giornale – a far progredire l’apertura istituzionale ed ad allinearsi con le regole economiche e commerciali di alto livello’. Alcuni paesi del CPTPP hanno già espresso il loro sostegno alla richiesta cinese, Singapore, Malesia, Cile, Brunei, Nuova Zelanda. Anche ciò costituisce un fatto politico e geopolitico rilevantissimo perché si tratta di paesi fortemente legati agli Stati Uniti.
Che dire? Mentre in ‘Occidente’, ancora prevalgono logiche anticapitalistiche di ‘sicurezza nazionale’ e molti pseudo-liberisti domestici e ‘occidentali’ sono diventati campioni (o forse più semplicemente lo sono sempre stati, ma nascondevano la loro ‘natura’) dell’iperstatalismo militaristico, in Asia orientale, nelle democrazie est-asiatiche sembrano prevalere altre logiche, politiche e capitalistiche. Il che è molto positivo, il libero commercio non è morto; ma anche ‘negativo’ (per quel tipo di ‘Occidente’ e non solo), poiché le logiche est-asiatiche sono molto più in sintonia con i processi di allargamento dell’accumulazione e dei mercati capitalistici (così ben delineati da un grande studioso italiano, Giovanni Arrighi) dell’’economia politica della sicurezza nazionale’.
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